martedì, 10 aprile 2007

tre

Si ritrovò nella solita mattina sempre uguale e sempre diversa, mentre s'allacciava il terzultimo bottone della camicia. Era stupefacente come trovasse ogni giorno la forza di volontà per non indossare la camicia come fosse una maglietta, riducendo così a due o quattro le asole da riempire. Un sacco di tempo perso. Tempo che avrebbe potuto dedicare a scegliersi un taglio di capelli più semplice da pettinare, o anche a ricordarsi ogni santissima volta di staccare l'altra sveglia una volta alzato.
Alle otto e sedici minuti un trillo insistente squarciò il silenzio malsano che aleggiava per il corridoio dell'albergo/pensione. Si infilò subito una mano in tasca per fermarlo, dando un'occhiata qua e là come per scusarsi, nel caso qualcuno fosse risuscitato da una qualsiasi di quelle porte. Una volta sul ballatoio, iniziò a svanire l'odore di sonno grassiccio che si portava nelle narici; l'aria fredda si riconciliò col legno laccato dell'ascensore, la polvere vecchia delle biciclette inservibili incatenate al mancorrente e un lieve profumo di sigaro che proveniva dal resto del condominio.
Gli inconvenienti del sonno, già. Scivolò nella sala buffet con lo sguardo stanco e dolorante, alla ricerca svogliata di qualcosa che non peggiorasse troppo il fisiologico mal di stomaco di quando dormiva poco. Confidò nell'acqua bollente del tè per evitare i brividi di freddo che sarebbero seguiti, e pigliò due fette di quello che sembrava ciambellone al cioccolato, più una mela verdognola e grinzosa che aleggiava sul tavolo.
Si sedette accanto ad un tipo grosso e sorridente probabilmente straniero, capelli talmente bianchi che passò i tre minuti della bustina di earl grey tra il chiedersi se per caso qualcuno producesse tinte bianche da uomo, e patetici ripetuti assalti alla buccia verdognola e grinzosa. Perché a cosa serve avere un coltello di metallo, quando non riesce ad intaccare neanche una fottuta mela fuori stagione?
Si pulì la mano sul tovagliolo di carta assorbente, imprecando tra se e sé mentre mandava giù quel liquido scuro che odorava vagamente di cloro. Giorni addietro l'aveva chiesto esplicitamente, al portiere di notte.
"Si può comprare una bottiglia d'acqua?"
"Acqua minerale?"
"No, naturale."
L'uomo l'aveva guardato con disprezzo, sfoderando tutte le occhiaie previste dal suo ruolo più un supplemento legato alla scomodità del bancone, al nero sul collo della giacca bianca e alla luce bluastra sparata dallo schermo del computer.
"C'è quella del rubinetto."
"Ma è potabile?"
"Certamente", gli aveva risposto con orgoglio. "In Austria abbiamo l'acqua più buona d'Europa, viene dalle Alpi."
A parte la discutibile qualità dell'acqua delle Alpi - che sperimentalmente sapeva di neve sciolta, era acidula e metteva sete, quel tè sapeva di piscina ed era pure torbido. Inoltre ormai associava il bianco latte del tizio rubicondo (che poi aveva identificato come straniero sottintendendo che era più straniero di lui) alla squallida sensazione di sete dopo aver bevuto litri d'acqua, il che rendeva le cose tremendamente più difficili. Si infilò il cappotto sbuffando e passò dalla reception, dove il portiere di giorno girò la testa in una maniera tale che fu subito chiaro che c'era un pacco ed era per lui. Dopo poco si portò appresso il suo sorriso di convenienza (che teneva accuratamente da parte per le occasioni peggiori) fuori dalla porta scorrevole, indossò gli occhiali da sole aggiustandosi sapientemente la busta gialla e si incamminò verso il centro.

Erano ormai parecchi minuti che condividevano quel silenzio. Un silenzio scomodo, di quelli che sottintendono troppo, fastidioso come il rumore di zucchero caramellato che si stava spargendo per le strade di Vienna, che strideva così tanto col sapore di vin brulé che piano piano sobbolliva là da un lato, nell'indifferenza generale. Perché c'era il silenzio che meritava rispetto, il silenzio che si sentiva d'interrompere con qualche argomento sbiadito e provvidenziale, il silenzio da lasciar perdere, ma quello di quella mattina era un po' tutti questi insieme. Era un silenzio, ecco, di quelli che gran parte del mondo avrebbe ignorato, e che loro condividevano senza chiedersi troppo cosa significasse veramente, aspettando (senza crederci troppo, è chiaro) un'occasione qualsiasi per farla finita.
Condividevano anche una certa sensazione di freddo. Un freddo che accompagnava quelle parole non dette, mentre intorno continuava tutto quello che continuava, e sempre lì intorno qualche decina di esseri sconosciuti appariva per un attimo nella loro lista dei vivi, per tornare subito dopo nel più sereno grigiore del paesaggio circostante. Faceva freddo tra la Stephansdom e la stazione della metropolitana, tra le vetrine ingioiellate di Bulgari e il negozio di moda tutto trasparente, faceva freddo per loro e per gli ignari turisti che avevano sfidato l'alba un po' troppo presto per tornarsene in albergo veramente riposati, e quindi si lasciavano trascinare verso l'alto dalla scala mobile per gustarsi la lenta apparizione di quella piazza così contrastante.
Era lì che si interrogava sul senso di tutto questo, ed in particolare sulle conseguenze dell'invenzione della sveglia sulle abitudini comuni (perché in vacanza la sveglia per definizione perdeva il suo senso più classico, consacrandosi a un Fine ultimo che a lui comunque sfuggiva, per quanto ovvio e sublime), quando a lei squillò il telefono. A dire la verità era 'un' telefono. Quello nella tasca destra, che significava che tutto stava andando come doveva andare.
Attraversarono - sempre in silenzio, è chiaro - parte della piazza, schivando improbabili edicole a cielo aperto, fiorai e rivenditori di francobolli, così come una parte di quei turisti svegli da troppo che ingannavano tempo e stomaco con un bratwurst che faceva tanto tipico, spiegando a chi credeva fermamente nella dolcezza della colazione che dopotutto anche quella era Vienna, destreggiandosi con l'evidenza di un panino ingiustificatamente rotondo e intero e di una salsiccia chiaramente non tagliabile. Un popolo già quasi consapevole di dover sacrificare mani o guanti, per compiere adeguatamente la sacra omologazione al dio delle colazioni continentali, il wurstel. Le fontanelle erano chiuse per non gelare e le strade profumavano di neve; dopo poco erano al chiosco di legno.
"Prego?"
"Delle patate, grazie."
Lei ordinò con disinvoltura tre grossi cerchi di patate novelle, arrostiti insieme a più ragionevoli castagne e conditi con qualcosa che originariamente era cipolla, cipolla fortissima, inequivocabile cipolla mescolata ad altra cipolla e forse aglio, pastosa e rilucente sul giallo dorato di quei tuberi che di mattina evidentemente facevano tanto tipico. Apprezzava il suo coraggio (certo, meno di quegli occhi che lo guardavano evitandone lo sguardo e sostenendo il suo silenzio, o forse il loro silenzio perché apparteneva a entrambi, chissà, silenzio che comunque aveva trovato un modo per rompere).
"Patate e cipolle?"
"Sì."
"Potevano trovare qualcosa di più umano."
E lì, in quei momenti si faceva avanti la velata certezza che forse di modi ce n'erano di migliori.
"Perché mai?"
"Intendo, patate e cipolle alle otto di mattina, non è propriamente in incognito."
"A me piacciono, e poi è di strada."
Normalmente era dopo figure del genere che tutta la storia sul silenzio passava in secondo piano. Aveva consapevolmente portato avanti il suo malinteso quotidiano, peraltro neanche troppo influente, e poté tornare a riflettere su quanto ci fosse di patologico nella gente che alle otto del mattino si sparge per piazze e musei. Aveva ristabilito quel velo di precaria confidenza, tanto che condivise la profondità del suo pensiero.
"Evidentemente non hanno di meglio da fare", gli rispose lei, che intanto si era infilata su una delle tante strade laterali (in una piazza tutte le strade sono laterali) e stava scansando una vecchia col carrello della spesa.
"Sono in vacanza, l'hanno voluta loro."
Di sicuro la vecchia non era in vacanza. Come non era in vacanza nessuno di quei minisupermercati aperti quasi in centro, subito dietro l'angolo, ormai in gran parte d'Europa. Quella era la quotidianità.
"Forse non si aspettavano che la notte potesse essere così poco interessante, e quindi recuperano sul giorno. Forse è il loro primo giorno."
"Tutta quella gente?"
"Magari."
"Ma se ci pensi il turista è generalmente mattiniero. Lo incontri di mattina e all'ora di pranzo, e ad età ragionevoli quando è già buio da un po', ma la mattina sempre."
Il saliscendi del marciapiede gli infuse un ritmo che lo spingeva ad andare avanti. Meravigliosamente pulite, le strade di Vienna, nessun inconveniente che potesse interromperlo.
"Prendi l'autobus di mattina, ad esempio. C'è generalmente chi va a scuola, qualcuno che va a lavoro presto..."
"... i vecchi ... "
"... già, i vecchi che alle sette sono già ammucchiati qua e là a fare domande al conducente, eppoi i turisti. Maledetti turisti che ti affollano la banchina e indugiano su quelle cazzo di cartine per mezz'ora e poi ti chiedono candidamente da che parte sta il Colosseo."
"E che poi vanno a pranzo al Colosseo, che c'è il ristorante e ormai sono già là."
"Esatto, quella è gente che principalmente passeggia, e quello che è grave è che passeggia dalla mattina presto, e ci si mette pure la sveglia per farlo."
Superarono un bivio evidente verso il Danubio. Là le auto erano ancora poche, gli autobus rari e semivuoti, e a mano a mano che proseguivano i negozi si facevano meno numerosi.
"Ma alla fine che ti cambia?"
"Come, che mi cambia?"
"Voglio dire, evidentemente è gente che ritiene più importante svegliarsi alle sei e spremere tutti e seicento gli euro pagati all'agenzia, piuttosto che godersi la cazzo di città con più calma e qualche ora di sonno addosso. Se parti che devi vederti le cose obbligatorie, è finita."
Una vita fatta di paesaggi obbligatori. Lo colse un brivido di disgusto, a pensare ai ricordi come a diapositive sbiadite, tutte uguali, così meravigliosamente scomode e inutili (gran bella invenzione, le diapositive, grande successo - si disse con compiaciuto sarcasmo).
"Eh, ma questa gente è praticamente tutta la gente, è quello che mi torna strano."
"E' per questo che in albergo la colazione finisce alle nove. Vorrà dire che sarai condannato a non fare mai in tempo per yogurt uova speck burro e marmellata."
"O che mi rimarranno le uova strapazzate, l'aranciata e l'acqua del rubinetto."
Tragica prospettiva di vita, cioè di sopravvivenza. Peraltro questo rafforzava il suo ideale di casa, per quanto labile in quei tempi potesse essere un qualsiasi ideale, e se da un lato significava un rapido impoverimento era un'ulteriore ragione per mangiare fuori.
Non ci volle troppo per raggiungere la stazione del metrò.
"Qua vicino c'è la casa di Freud", disse lei.
"Dove è nato?"
"Mah, forse dove è morto, non ha importanza."
"Dove dobbiamo andare?"
"Alla stazione, sulla banchina."
"Sperando che non sia piena di maledetti turisti."
"Non lo sarà, è una fermata così inutile. Non so neanche dove siamo."
Era una di quelle fermate che hanno molto in comune col Danubio. Vagamente rossa. Non scese nessuno né dal primo né dal secondo treno, quindi ci fu quasi il rischio di condividere un altro precario silenzio, ma per fortuna dall'altro lato dei binari un altro essere umano iniziò un notevole repertorio classico di violino, dedicato alle facce annoiate pronte ad arrivare germanicamente puntuali in ufficio, e forse proprio al loro silenzio. Venti minuti dopo scesero tre persone, ed un uomo dalla camicia avana si affacciò (sul loro silenzio) biascicando un "Salve, signori" piuttosto sorridente, che accompagnarono tutti con un nuovo silenzio di gruppo, piuttosto corale, fino all'uscita sul lungofiume.