lunedì, 16 luglio 2007

quattro

"Accetta quello che ti danno. Accetta la sveglia alle sei, la doccia troppo tiepida e i sei minuti di colazione, accetta le attese passate alla fermata a fremere per ogni autobus che sta lì indeciso se venire verso di te o voltare all'angolo, accetta il trenta barrato che arriva pieno e in ritardo mentre già dovevi essere in quel posto che chiamano lavoro. Accetta il suo sguardo la mattina, quando entri e ti squadra con indifferenza e ti dice buongiorno, quando le parli e ti ascolta come si ascolta qualcosa di lontano controvoglia, accetta le sue risposte che non colgono nulla di quello che metti là quasi per caso, accetta il fatto che il suo profumo a una cert'ora svanirà dietro qualche corridoio, e ti avrà detto 'a dopo' ma sai che non è vero. Accetta tutto questo, cazzo."
Prese fiato.
"Lo accetti perché alla fine ti fa comodo, perché è la melma in cui sguazzi tutti i giorni, caro mio, e lo sai bene. Vivi nello stesso fango da quando sei nato e non ci hai mai visto niente di strano, in fin dei conti, sei vaccinato dalla tua stessa vita contro la tua stessa vita, questa schifosa e fottuta vita in cui non hai niente da perdere."
Bevve un sorso. Era vino bianco, forte, lo mandava giù senza sentirlo, chiudendo per un attimo gli occhi con una smorfia. Henry se lo guardava, aspettando. Se c'era una cosa che gli riusciva bene, era aspettare.
"Vai avanti così finché ti regge, finché non impazzisci o muori di cancro o nella migliore delle ipotesi, la fai finita nel tuo letto, nel sonno. Ma questo è quello che speri tu."
Divenne come più confidenziale.
"Non si muore nel sonno. Non te lo dicono, ma c'è un istante del cazzo in cui lo senti, che te ne stai andando, in cui senti il fiato fetido e pesante della morte e il tuo respiro che si affanna e il cuore in gola e le cazzo di viscere che ti si contorcono, lo senti, e allora è anche peggio perché non te lo aspettavi, perché magari eri immerso in uno dei tuoi fottuti sogni dove tutto fila liscio, dove hai la tua vita perfetta e il tuo amore perfetto e la speranza ti sembra l'ultima a morire."
Lui lo sapeva. Se la speranza era veramente l'ultima a morire, era una grossa fregatura. Vuol dire che te ne andavi prima te, e non era per niente bello.
"Capisci, adesso? Può non fregartene un cazzo di quello che ti hanno detto, di quei quattro soldi che ci infileranno Dio solo sa dove. Tu stai lì per vedere il rivolo di sangue rosso e luccicante che gli scende dalla mascella, stai lì per togliergli il gusto di provare una morte che in realtà è una grossa delusione ma per lui è la degna fine della sua vita del cazzo, stai lì a strapparlo da altri trent'anni di vita e da un'onorevole morte nel suo letto, e stai lì per provare a cambiare le cose. Capisci perché Hampton Kelly deve morire?"
Capiva. La vita era maledettamente difficile. Un attimo eri lì a prendere un aperitivo sulla Mariahilfer strasse, dopo un po' magari eri all'hotel Sacher a sparare ad Hampton Kelly, cercando di far presto per non far chiudere la cucina del Wienerwald là vicino - con quel pollo fritto così malsano e così croccante, vagamente aromatico-, oppure eri tra la folla della Westbahnhof ad aspettare l'autobus per casa, oppure eri semplicemente morto. Lo sapevano tutti e due. Probabilmente lo sapeva anche un grosso signore giapponese, che si avvicinò sorridendo al loro tavolo, su cui fece precipitare una grossa cartella di plastica azzurra, e sempre sorridendo pronunciò qualche parola in inglese prima di allontanarsi.
"I signori vogliano scusarmi per il disturbo, e facciano buon lavoro."
Non si alzarono. Rimasero tesi nelle sedie di paglia del locale, guardando da lontano la berlina grigia che si stava portando via il signore sorridente.
"Apri tu, Paul?"
Annuì. Curvò la schiena spalmandosi interamente sullo schienale, sbuffò un sospiro di circostanza e fece scattare l'elastico della cartella. Diede uno sguardo al di là della ragazza bionda lì al bancone, cercando il vecchio albino padrone del konditorei, passando le dita lunghe e sudate di taglio, sul bordo del cartoncino. Trovò solo spalle di gente che non guardava, e prima dell'ansia di cambiare le cose lo colpì il ricordo dei cinquantamila, il sorriso pallido e orientale che se n'era appena andato e solo allora l'ansia di cambiare le cose - ma non lo avrebbe mai ammesso - e intanto sentiva il respiro ansioso e controllato di Henry che aspettava, l'odore di roesti e carne saltata che veniva dall'altra sala e quello di frutta ed alcol del suo stesso fiato. Si strofinò il dito meno unto sulla gamba destra e girò la pagina.

Adesso passeggiavano nel rumore bianco del Danubio che scorreva in sottofondo alle rare automobili che passavano di là. L'uomo dalla camicia avana aveva finalmente smesso di sorridere. Ci aveva fatto subito caso. Ultimamente la gente sorrideva troppo e senza motivo, e mai quando ce ne fosse veramente bisogno, pensava. Era un uomo col nasone e gli occhi piccoli e chiari, oltre la cinquantina.
"Vienna è proprio una bella città."
"Già", fece lei.
"E' proprio un peccato che vi ci troviate in una situazione del genere. Tuttavia, spero che avrete il tempo di ritornarci, ve la consiglio davvero."
Tirò fuori una mano illustrativa.
"Laggiù - vedete? - laggiù c'è lo Schoenbrunn, cioè non proprio laggiù ma da quella parte. Ad andare più avanti il fiume si biforca, c'è l'Alte Donau, e là vicino la sede delle Nazioni Unite." Aspetto che un camion finisse di superarli. "Siete già stati all'ONU?"
"No."
"Peccato, un giorno dovreste farci un salto. Ah, ci vuole il passaporto, soprattutto di questi tempi. Comunque, il problema per cui siamo a Vienna non è propriamente questo.
"Recentemente sono arrivate al nostro ufficio delle informazioni preoccupanti da nostri contatti nella dogana austriaca. Hampton Kelly sarà qui. In uno di quegli alberghi sfarzosi che puzzano di legno vecchio e tappeti pregiati, per una di quelle cazzo di conferenze in cui è stato invitato a parlare. Elargirà a quelli che lo ascolteranno un discorso classicamente ipocrita, godendosi questo briciolo di vacanza in questa città così fredda e romantica.
"Lo vogliono morto. Sapete? Hampton Kelly è quello che si dice un uomo antipatico, ma nel senso originale della parola. Sim-patico, viene dal greco, vuol dire 'soffrire con', ecco, ed è esattamente la persona con cui non vorreste condividere nulla.
"Troverete quell'Hampton Kelly, e chiaramente non sarete soli. Fatelo per quel cazzo che vi pare. Ci guadagnerete qualche giorno in questa città del cazzo, una città incapace di qualcosa di più di un sorriso di circostanza. Sapete? Qualcuno ha detto che non esistono Paesi, esistono solo città."
Ammettere una citazione è il primo passo verso l'onestà, si disse lui. L'uomo dalla camicia avana rallentò impercettibilmente, guardandosi intorno mentre continuava.
"Qualsiasi cosa farete, sorridete. Cercate d'essere simpatici con la manciata di persone che incontrerete - perché ne incontrerete, lo sapete bene - ma non vi aspettate che siano pronti a morire per voi. E' un po' un lavoro di merda, lo sapete, ma può dare soddisfazioni. Comunque vi capiterà più spesso di lasciarli a soffrire da soli, quando sarà il caso, ma l'incarico è vostro."
Si guardarono negli occhi, brevemente, senza sorridersi.
"L'organizzazione si fida di voi. Io, mi fido di voi. Quindi ci fidiamo di voi, ed è già un passo avanti. Non fate cazzate. Con la gente che lo vuole morto, scommetterei che c'è qualcuno che ci sta seguendo anche adesso mentre parliamo, ad esempio non mi va giù il violinista alla fermata di prima, ma vabbè."
"Suonava molto bene."
"Principalmente aveva un violino parecchio costoso, troppo per una stazione deserta come quella. In ogni modo, se ci fossero problemi chiamate questo numero."
Gli porse un pezzo di carta mezzo strappato, su cui erano stampate un certo numero di cifre.
"Bell'appartamento, avete trovato. Ah, a quest'ora avrebbero dovuto finire di cambiare la serratura, queste sono le chiavi nuove. Quando ve ne andrete penseremo noi a rimontare la vecchia. Che vi devo dire... usate poco il telefono, leggete bene quelle quattro righe che troverete in uno dei cassetti della cucina (mi pare il terzo) e non fate cazzate. Domande?"
"Veramente..."
"Pessima risposta. Quello che dovete sapere lo sapete già, o lo saprete fra qualche minuto. Se ci fossero problemi molto grossi, e mi auguro che non ce ne siano, il numero l'avete, passeremo a prendervi."
"Lei sarà a Vienna?"
"Io sono a Vienna adesso, mio caro. Per quanto ne so potremmo essere morti tutti e tre fra meno di mezz'ora." Fermò un taxi con la mano. "Divertitevi, o non ne sarà valsa la pena."
L'auto si allontanò nella direzione opposta. Smisero di camminare ed attraversarono la strada, salirono su un autobus e rimasero in silenzio, uno di quei silenzi che sottintendono veramente troppo, un silenzio che rispetto a qualche ora prima aveva perso una certa sensazione di freddo. Quando arrivarono a casa, quel sole sbiadito aveva già cancellato il ricordo del gelo della Stephansdom.
"Hai paura della morte?"
"Sì."
Glielo disse così, senza pensarci. Aveva paura della morte e di un sacco di altre cose. Aveva paura di quando le cose sarebbero finite, aveva paura dei seicento metri dalla fermata sul Ring al suo appartamento, aveva paura della luce che svaniva nel buio della notte, prima che potesse almeno provare ad impedirglielo. In qualche modo. C'erano cose che la terrorizzavano, altre che la facevano sussultare, ma la morte era là, una di quelle certezze cui rispondere subito, sì ho paura della morte. Una delle poche paure di cui era facile non vergognarsi, e pensò che il modo migliore per cominciare sarebbe stato confessarne qualcuna, e così stava facendo. Non era male come inizio.
Tutti i giorni, alla stessa ora, l'appartamento sul Ring si riempiva dell'odore più universale di tutti, l'odore della spazzatura portata via dal camion grosso e arancione della nettezza urbana. Quella era l'esperienza che aveva avuto, che più si avvicinasse al concetto di morte. Il rumore dei secchioni, uno sguardo alla finestra e l'odore già saliva inarrestabile in alto, attraverso i vetri socchiusi, ed oramai era inevitabile e ogni tentativo di fermarlo sarebbe stato vano, e sarebbe stata ovunque spazzatura, puzza, cenere. Ecco, se ne stava lì, con quella luce pallida spruzzata sulle pareti bianco latte, a pensare a quando fuori dalla finestra avrebbe ammirato con un'occhiata fragile e disattenta solo quella manciata di luci che ballavano al ritmo di altre luci, a quando sarebbe arrivato il buio della notte in cui tutto rischiava di svanire, la figura sfacciata e rassicurante dell'uomo con la camicia avana come loro due, e tutto il resto, e di preciso non trovava niente da dire.
Lui fece un salto in cucina. Allungò un'occhiata sulla cassettiera vicino al forno, e sentì il rumore dello sguardo di lei che faceva altrettanto. La affrontavano chiedendosi apparentemente se quello giusto fosse il terzo dall'alto o dal basso, ma nascondendo in realtà qualcosa di più radicato e profondo come la fame.
"Bistecca?"
"Dai."
Lui raccolse due paia di posate dall'apposito portaposate, e mentre lei stendeva le tovagliette ai due lati del tavolo quadrato là vicino, lanciò il grosso incartamento giallognolo sul divano bianco e innocente, che lo accolse con un tonfo sordo e penetrante.
"Quello dopo."