martedì, 15 luglio 2008

domenica, 6 luglio 2008

questionmark


(per una volta non è colpa sua)

giovedì, 3 luglio 2008

Corri. Che cazzo corri a fare. Te lo chiedi, e spesso, quando l'unica cosa che ti viene in mente per far scivolare via il caldo che hai addosso è imboccare quella rampa di scale e buttarti fuori.
Fuori da dove vivi. Fuori nella gelatina calda e appiccicaticcia che chiamano mondo, quel mondo che ti si condensa addosso mentre inforchi i pochi metri che ti separano dal cancello, mentre i clienti del ristorante all'angolo ti guardano inorriditi - come se alle otto di sera non si potesse fare altro che mangiare da un fottuto piatto di porcellana bianca scheggiata.
E' così che va il mondo. Il mondo è quella pizza alle sette di sera, quegli involtini alla romana delle otto meno un quarto che sanno di pausa obbligatoria in una lunga giornata altrettanto obbligatoria, in cui tutto quello che ti chiedi non è di vivere una città ma di viverne il sogno. In cui mille persone popolano gli angoli delle strade, persone che distingui da chi sta vivendo perché stanno sedute, perché non si lamentano, perché quel caldo e quelle soste al semaforo per loro diventano un paesaggio come tanti altri, come tanti altri destinato all'oblio inevitabile. In più, gli involtini alla romana non sono così, e questo un po' ti fa incazzare.
Tu fai parte di quell'oblio. Tu fai parte di quel paesaggio che il mondo, quella pallocca gelatinosa e appiccicaticcia che gli altri chiamano e vivono come mondo, vede di sfuggita. Sei solo un istante tra un cameriere e l'altro, sei quei cinque metri prima della fontanella di un Colosseo vecchio e stanco, che se ne sta lì a farsi squadrare e fotografare, senza per questo venir ricordato. Sei la pausa tra la vecchia che riempie la bottiglia di plastica e il ragazzino che ancora non sa bere. Mentre gli altri intanto mangiano, mangiano e si guardano intorno, parlano dei mondi e delle solitudini che li aspetteranno quando il giorno sul tuo calendario coinciderà con quello stampigliato sul loro biglietto elettronico. Si guardano intorno, perché è se stessi che guardano. Pensano ad altro, sono lì come spettatori di uno spettacolo che deve ancora cominciare, in quella grossa sala d'aspetto che chiamano vacanza, appiccicaticcia e un po' vuota ma non per questo spiacevole.
Intanto corri. Che cazzo corri a fare te lo chiedi ormai da un bel po' di minuti. Te lo chiedi tra un sampietrino e l'altro, mentre cerchi di non atterrare malamente quando scendi dal marciapiede, mentre scruti con lo sguardo ubriaco il colore del semaforo per capire se è verde. Perché il tuo sguardo è un continuo sperare che qualcosa succeda e che qualcos'altro non succeda, dalla macchina che sbuca contromano da via Cavour a tutto quello che hai sempre desiderato, e proprio per questo non accade.
Un motivo non c'è. Forse ce ne sono tanti. Forse se andassi più lento, se avessi quell'incedere stanco e stressato della tizia col passeggino, o di quello che continua a non distinguere i Fori Imperiali dalla stazione Termini, beh forse faresti anche tu parte di quel mondo. Di quel mondo gelatinoso e appiccicaticcio che adesso ti scivola addosso, di quel mondo che affronti con un respiro che è insieme affannoso e regolare, controllato e naturale come quelle cose che vivi perché non puoi farne a meno.
Non è la velocità. E' la tua velocità. E' la velocità con cui vivi quegli istanti del cazzo, non la velocità con cui ti ci muovi, con cui schivi traballante il prossimo personaggio di quel mondo placido e gelatinoso che non vive la città ma il suo fantasma.
Sono quegli attimi tra un passo e l'altro. Quando ti chiedi come andrà a finire. Quando passi con lo sguardo dalle strisce sbiadite alle persone altrettanto sbiadite che camminano verso il loro immediato futuro, svogliate o sognanti, loro con tutto quello che è stato e con in tasca parte di quello che sarà. Quando ti dici che tu di quel futuro non ne fai parte, e un po' è un sollievo e un po' ti dispiace, perché in fin dei conti hai sempre creduto che quel ritmo incalzante di un piede e poi l'altro portasse da qualche parte - e invece il sudore che hai addosso ti dice che non è così.
Quello, è il tuo motivo. E intanto fa buio, e te ne torni a casa fradicio di quel mondo gelatinoso e appiccicaticcio che non conoscevi e che si asciugherà fra poco. E un po' ti fa sorridere, l'idea di ripassare davanti al ristorante dietro l'angolo, così, con la faccia e il respiro patetici di chi ha provato a vedere fino in fondo come vanno le cose. Rimediando soltanto uno sguardo stanco e smarrito, qualche chilometro di solitudine e il cuore in gola a ricordarti che fino ad adesso sei ancora vivo.