sabato, 6 dicembre 2008

lunedì, 8 settembre 2008

c'era una volta l'amore ma ho dovuto ammazzarlo

Capita, a volte, di passare in libreria e sfogliare un libro che ti attrae, così, per la copertina, per il titolo, per qualcosa che al momento non ti è chiaro.
Capita anche di leggere qualche pagina o la fantomatica quarta di copertina, così come capita di richiuderlo e ritrovargli un posto nella pila polverosa di cose che non leggerai. Lo fai riflettendoci su una manciata di secondi, perché sai che un libro deve piacerti a pelle e quello effettivamente un po' ti stuzzica ma ormai l'hai già incastrato nella prigione consueta dell'ordine alfabetico.
Capita anche di tornare in libreria qualche giorno dopo, e riscoprire quelle pagine e quella quarta di copertina, e di prenderlo stavolta, stavolta senza rifletterci su.

C'era una volta l'amore ma ho dovuto ammazzarlo, di Efraim Medina Reyes. Uno dei più bei libri che ti possa capitare di leggere per sbaglio; cercargli altri aggettivi suonerebbe un po' patetico.


Uno si mette a scrivere perchè non è stato capace di picchiare un autista che l'ha reso ridicolo, perchè non ha fracassato i piatti in un ristorante, perchè non ha affrontato un poliziotto fuori di testa che insultava la sua ragazza, perchè non ha detto a sua madre quanto l'amava e la detestava, perchè non ha sputato in faccia ad un professore che diceva che la terra è rotonda, perchè si è fatto fregare il posto nella fila per il cinema, perchè non ha arte nè parte, perchè pensa che è un modo facile di diventare famoso e fare soldi, perchè se lo fanno buffoni come Garcìa Marquez e Mutis può farlo anche lui, perchè con i numeri non ci sa fare, perchè non vuole fare nè il medico nè l'avvocato, perchè è incazzato, perchè odia la gente e vuole insultarla. 

Uno si mette a scrivere perchè una ragazza carina gli ha detto che le piacevano gli scrittori, perchè ha bisogno di un alibi per non lavorare, perchè lo fa sentire superiore, perchè ha letto un paio di romanzi sul Far West e vuole entrare in concorrenza, perchè è un cowboy senza cavallo, perchè lo fanno scribacchini come Vargas Llosa, perchè non ha voce, perchè non ha senso del ritmo, perchè è stufo di farsi le seghe, perchè vuole portarsi a letto una donna ma non c'è verso, perchè pensa di avere qualcosa da dire, perchè scopre che le ragazze carine dicono che gli scrittori sono teneri ma poi escono con i mafiosi, perchè non gli lasciano mettere le mani addosso alle reginette di bellezza, perchè è magro come un chiodo e non c'è niente da fare, perchè ha paura di morire senza essersi scopato una ragazza carina, perchè se uno stronzo ipocrita come Vargas Llosa scrive può farlo chiunque, perchè sa che perde il suo tempo, perchè invidia quelle bertucce che appaiono in tivù e guadagnano milioni, perchè in mancanza di meglio vuole essere come Bukowski. 

Uno si mette a scrivere perchè non sa tirare di boxe e non ha fegato, perchè ha i denti storti e non può sorridere come vorrebbe, perchè per gli impotenti d'ogni sorta non c'è altra strada, perchè tutti i brutti sono scrittori o assassini e lui non è capace di far male a una mosca, perchè scrivere lo fa sentire importante, perchè per essere chiamati scrittori non c'è bisogno di scrivere bene e per essere chiamati figli di puttana fa lo stesso se si ha una madre che è una santa, perchè ha paura di andare alla deriva senza far nulla, perchè non può bere ogni sera, perchè ama Dio ma odia le associazioni senza fini di lucro, perchè non ha una ragazza, perchè non ci sono emozioni ma insulti, perchè a casa sua non c'è la televisione e la radio si è rotta, perchè la moglie del vicino è un bon bon, perchè ha paura di restare calvo e per questo evita gli specchi. Uno si mette a scrivere perchè non osa rapinare un supermercato, perchè ama la donna e lei è la fidanzata del gallo del quartiere, perchè non ci sono abbastanza riviste porno, perchè vuol fare qualcos'altro oltre a cagare e masturbarsi, perchè non è il gallo del quartieree non è neppure il più forte o il più spiritoso, perchè non è niente di niente, perchè non vale un cazzo, perchè se esce di casa lo fanno a pezzi, perchè sua madre urla tutto il tempo, perchè non ci sono nè illusioni nè luce alla fine del tunnel , perchè la sua mente vola basso e non sarà mai un altro Cioran, perchè non ha il coraggio di saltare, perchè non vuole la moglie brutta che si merita, perchè ha paura di morire senza avere assaggiato un bel culetto, perchè non ha padre nè amici nè fortuna, perchè non sa sputare come Clint Eastwood, perchè rimane impantanato tra una intenzione e l'altra, perchè c'era una volta l'amore ma ho dovuto ammazzarlo. 

Il bello è che scrivere non serve a nulla di ciò che uno vuole. Scrivere è un limite, un dolore, un difetto in più. Il bello è che dopo averlo fatto stai malissimo. Niente è cambiato, tutto rimane al suo posto (tranne i tuoi fottuti capelli), Pelè non torna in campo. Il brutto è che scrivi e Pambelé va al tappeto steso da un gringo, un gringo maledetto che è stato dentro per avere picchiato sua madre. Il brutto è che Pambelé non è la madre del gringo e - per quanto tu scriva - rimane al tappeto. Il bello è che scrivi e continui a sognare la moglie del vicino, sogni di afferrarla per le orecchie e darle una bella ripassata. Il brutto è che scrivere non ti guarisce dagli impulsi assassini, che rapinare un supermercato rimane il tuo obiettivo impossibile. Il brutto è che desideri ancora un amore indimenticabile. Il bello è che scrivere è un altro modo di cagare e masturbarsi. Il brutto è che leggi i grandi autori ma solo Bukowski ti rimane. Il brutto è che un giorno la ragazza carina viene a sapere che scrivi e lo stesso non si lascia scopare a morte. Il brutto è che scrivere serve a tutto quello che tu non vuoi. 
"Ciao mamma." 
"OH MIO DIO, Rep, hai le scarpe SPORCHE DI CACCA." 
"Non urlare, pulisco il pavimento." 
"TOGLITI DI LI', TORNA DA DOVE SEI VENUTO." 
"Va bene, mamma, ma non urlare." 
"NON STO URLANDO."

martedì, 15 luglio 2008

domenica, 6 luglio 2008

questionmark


(per una volta non è colpa sua)

giovedì, 3 luglio 2008

Corri. Che cazzo corri a fare. Te lo chiedi, e spesso, quando l'unica cosa che ti viene in mente per far scivolare via il caldo che hai addosso è imboccare quella rampa di scale e buttarti fuori.
Fuori da dove vivi. Fuori nella gelatina calda e appiccicaticcia che chiamano mondo, quel mondo che ti si condensa addosso mentre inforchi i pochi metri che ti separano dal cancello, mentre i clienti del ristorante all'angolo ti guardano inorriditi - come se alle otto di sera non si potesse fare altro che mangiare da un fottuto piatto di porcellana bianca scheggiata.
E' così che va il mondo. Il mondo è quella pizza alle sette di sera, quegli involtini alla romana delle otto meno un quarto che sanno di pausa obbligatoria in una lunga giornata altrettanto obbligatoria, in cui tutto quello che ti chiedi non è di vivere una città ma di viverne il sogno. In cui mille persone popolano gli angoli delle strade, persone che distingui da chi sta vivendo perché stanno sedute, perché non si lamentano, perché quel caldo e quelle soste al semaforo per loro diventano un paesaggio come tanti altri, come tanti altri destinato all'oblio inevitabile. In più, gli involtini alla romana non sono così, e questo un po' ti fa incazzare.
Tu fai parte di quell'oblio. Tu fai parte di quel paesaggio che il mondo, quella pallocca gelatinosa e appiccicaticcia che gli altri chiamano e vivono come mondo, vede di sfuggita. Sei solo un istante tra un cameriere e l'altro, sei quei cinque metri prima della fontanella di un Colosseo vecchio e stanco, che se ne sta lì a farsi squadrare e fotografare, senza per questo venir ricordato. Sei la pausa tra la vecchia che riempie la bottiglia di plastica e il ragazzino che ancora non sa bere. Mentre gli altri intanto mangiano, mangiano e si guardano intorno, parlano dei mondi e delle solitudini che li aspetteranno quando il giorno sul tuo calendario coinciderà con quello stampigliato sul loro biglietto elettronico. Si guardano intorno, perché è se stessi che guardano. Pensano ad altro, sono lì come spettatori di uno spettacolo che deve ancora cominciare, in quella grossa sala d'aspetto che chiamano vacanza, appiccicaticcia e un po' vuota ma non per questo spiacevole.
Intanto corri. Che cazzo corri a fare te lo chiedi ormai da un bel po' di minuti. Te lo chiedi tra un sampietrino e l'altro, mentre cerchi di non atterrare malamente quando scendi dal marciapiede, mentre scruti con lo sguardo ubriaco il colore del semaforo per capire se è verde. Perché il tuo sguardo è un continuo sperare che qualcosa succeda e che qualcos'altro non succeda, dalla macchina che sbuca contromano da via Cavour a tutto quello che hai sempre desiderato, e proprio per questo non accade.
Un motivo non c'è. Forse ce ne sono tanti. Forse se andassi più lento, se avessi quell'incedere stanco e stressato della tizia col passeggino, o di quello che continua a non distinguere i Fori Imperiali dalla stazione Termini, beh forse faresti anche tu parte di quel mondo. Di quel mondo gelatinoso e appiccicaticcio che adesso ti scivola addosso, di quel mondo che affronti con un respiro che è insieme affannoso e regolare, controllato e naturale come quelle cose che vivi perché non puoi farne a meno.
Non è la velocità. E' la tua velocità. E' la velocità con cui vivi quegli istanti del cazzo, non la velocità con cui ti ci muovi, con cui schivi traballante il prossimo personaggio di quel mondo placido e gelatinoso che non vive la città ma il suo fantasma.
Sono quegli attimi tra un passo e l'altro. Quando ti chiedi come andrà a finire. Quando passi con lo sguardo dalle strisce sbiadite alle persone altrettanto sbiadite che camminano verso il loro immediato futuro, svogliate o sognanti, loro con tutto quello che è stato e con in tasca parte di quello che sarà. Quando ti dici che tu di quel futuro non ne fai parte, e un po' è un sollievo e un po' ti dispiace, perché in fin dei conti hai sempre creduto che quel ritmo incalzante di un piede e poi l'altro portasse da qualche parte - e invece il sudore che hai addosso ti dice che non è così.
Quello, è il tuo motivo. E intanto fa buio, e te ne torni a casa fradicio di quel mondo gelatinoso e appiccicaticcio che non conoscevi e che si asciugherà fra poco. E un po' ti fa sorridere, l'idea di ripassare davanti al ristorante dietro l'angolo, così, con la faccia e il respiro patetici di chi ha provato a vedere fino in fondo come vanno le cose. Rimediando soltanto uno sguardo stanco e smarrito, qualche chilometro di solitudine e il cuore in gola a ricordarti che fino ad adesso sei ancora vivo.

martedì, 24 giugno 2008

guardo lontano

In questo componimento, l'autore esprime il disagio dell'uomo moderno di fronte al tutto, in un percorso interiore di presa di coscienza di ciò che è e di ciò che non è, risolvendo il suo dubbio esistenziale in una complessa e dolorosa consapevolezza del Vero.


guardo lontano
e vedo
orizzonti sfumati balenare nel limbo di ciò che era
visioni
attimi
nascosti morbidi in un infinito che si intravede appena

guardo
lontano
e nulla è più come prima;
niente è vero
niente è certezza
in un violento caleidoscopio di ombre
che di lontano si azzuffano nella penombra del mio io

guardo,
lontano,
e vedo contorni che non avran fine,
sbavature di un'immagine che non si può narrare
perché è nuda,
scarna,
alla inquieta e vana speranza del mio occhio mortale

guardo,
lontano,
ma porca puttana,
questi sono gli occhiali di mia nonna

giovedì, 12 giugno 2008

scoop

Hanno la faccia come il culo


Qui il resto.

lunedì, 14 aprile 2008

rewind

Ouroboros, secondo Evola, è la dissoluzione
dei corpi: il serpente universale che, secondo
gli gnostici, procede attraverso tutte le cose.
Veleno, vipera, dissolvente universale, sono
simboli dell'indifferenziato, del "principio in-
variante" o comune che passa attraverso tutte
le cose e le lega.

(Juan Eduardo Cirlot - Dizionario dei simboli)



domenica, 24 febbraio 2008

attesa