martedì, 29 dicembre 2009

quindicimila (non nel senso degli yoghurt)

Sulle solite notiziole laterali di Repubblica appare oggi la sensazionale scoperta di una quercia che, autoclonandosi in una maniera che fatico a comprendere anche dopo una superficiale lettura dell'articolo, risalirebbe a tredicimila anni fa, surclassando di fatto il precedente record conosciuto stabilito da un pino norvegese di 9000 anni.
Dopo aver espresso la doverosa solidarietà nei confronti di questo pino, così ingiustamente e approssimativamente scalzato dal meritatissimo gerontoprimato, ero lì che come al solito mi interrogavo sul senso della vita e di tutto il resto (a proposito, la giraffa landisce), quando profonda dentro di me si è sollevata una corale acclamazione: minchia!
Sopravvivere tredicimila anni dev'essere infatti parecchio difficile. Anni ed anni di soprusi, di lotte per la sopravvivenza, di invidia tra pini e querce collocati in zone geografiche ora diverse ma prima magari no, ma soprattutto di culture che si succedono. Una questione di cultura che per le piante, fortunatamente, si riduce a una questione di coltura: se non ti mangiano, o non ti estirpano, o ancora meglio non ti trovano, sopravvivi liberamente a patto di trovare qualche sostanza nutritiva stiracchiando ritmicamente le radici nell'humus circostante.
E per un essere umano? Tredicimila anni probabilmente sono parecchi anche da un punto di vista evolutivo, ma non è questo il punto. Il punto è che in tredici secoli, o anche solo in trecentoventuno anni, il mondo ha il cattivo gusto di cambiare in una maniera impressionante. Le culture si affievoliscono, nascono e muoiono, variano, mutano, cozzano, si mescolano e si annullano e rinascono e soccombono e si circondano in maniera sempre più vorticosa, violenta, incomprensibile, tanto irreversibile e irreparabile quanto spontanea e naturale. Crescono, per dirla con una parola sola: dove la crescita non è verso il meglio, ma verso il più adatto (anche perché mi riesce difficile ritenere certe tendenze recenti come il prodotto più moderno ed attuale di una tensione verso la Perfezione). Crescono, e la crescita può implicare nascite e morti, accorpamenti e amalgame così come oblii e intensi cancellamenti.
Ma come si fa a vivere tredicimila anni e a stare dietro a tutti questi cambiamenti? Già è difficile passare da un mondo senza elettricità a un mondo con l'elettricità, da un mondo dove la panna si monta con la frusta a mano ad un mondo con il montapanna automatico o peggio ancora con la panna spray, da un mondo in cui il pesce si cucina a un mondo in cui si spendono un sacco di soldi per mangiarlo crudo. Figuriamoci cosa dev'essere farlo per trecento, tremila, tredicimila anni. Significherebbe partire baldanzosi con le proprie convinzioni in un mondo simpaticamente semivuoto, ed affrontare tutte le altre convinzioni, affrontare le varie messe in discussione dei propri ideali che non sarebbero necessariamente tutte costruttive, sormontabili, amichevoli. Soprattutto sarebbero tante.
A un certo punto, per sopravvivere tredicimila anni si dovrebbero fare delle scelte. A un certo punto anche un pino è troppo vecchio per lottare, per reagire, per imporre la propria visione del mondo non come soluzione-per-tutti ma come soluzione-per-sé, cioè rivendicando con forza non la propria supremazia, ma il diritto ad avere propria dignità in quanto individuo. Uno strenuo antirazzista già fa fatica a sopravvivere a una seconda guerra mondiale, che di anni ne dura solo sei. Di fronte a sé ha tre soluzioni: rimanere antirazzista, e soccombere; rimanere antirazzista, ma fingere di non esserlo; smettere di essere antirazzista, e cambiare idea. Nel primo caso è morto, nel secondo caso è come se lo fosse, nel terzo caso non è più lui.
E se dopo la seconda guerra mondiale ce ne fosse una terza, egli (visto che per ipotesi sopravviverà tredicimila anni) in qualche modo la fa comunque franca. Ma è altamente improbabile che la faccia franca rimanendo invariato e invariabile, conservando il suo antirazzismo e la sua passione per la panna montata a mano, per la spigola all'acqua pazza, per le lampade ad olio. Cambierà, in continuazione, imparando molto e soffrendo un po', mettendo in discussione quasi tutto, accettando anche cose che sono piccole negazioni di lui stesso.
Cosa resta dunque dell'uomo che era quando è venuto al mondo? Cosa resta di quella quercia, di quel pino (che, nonostante la sua millenaria sopravvivenza, tuttora subisce siffatte californiane umiliazioni), della ricetta originaria della Tarte Tropezienne e del primo Omero, di Creep dei Radiohead dopo la discutibile cover di Vasco, dell'horizon de ma folie e delle lingue perdute, dei Maya e dei primi spaghetti alla carbonara, del faro di Alessandria e della voce di chi è morto costruendo le piramidi? E se tutto questo sparisce, si evolve, si dimentica, cos'è che resta veramente? Resta solo il percorso che si è fatto, resta solo il filo e non i panni stesi, il fiume e non la barca che ci scivola sopra?
Forse non siamo fatti per vivere tredicimila anni, perché le cose di cui non possiamo fare a meno sono tutto sommato troppe, e fragili, troppo fragili per sopravvivere a tutto quel lasso di tempo. In tredicimila anni un sorriso perduto o lo si dimentica, o si muore per esso; non c'è spazio per À une passante di Baudelaire, non c'è spazio per un passato che si farebbe sempre più gravoso, irrecuperabile, o peggio sempre meno importante (meno indispensabile, meno personale, meno proprio), fino a sparire del tutto. Magari anche una quercia, se potesse, sfoglierebbe ogni tanto un album dei ricordi, magari è proprio per questo che per sua fortuna non ha dita, ma solo radici.