sabato, 10 novembre 2007

cinque?

L'amava, probabilmente da sempre. Era lì che scivolava in una notte di lampioni e silenzio, alla maniera in cui scivolano via le stelle in certe canzoni, nella sua serata tipo, una di quelle serate inutili che scivolano via brevi come solo la vita sa essere. Al quinto lampione si accorse che l'amava. Lei però era lontana, sempre troppo lontana, lontana quand'era vicina e ovviamente lontana quand'era lontana (coerente, dopotutto). Si sentiva forte, da quello di cui gli parlava, da quei piccoli stupidi spunti che annegavano sotto la mediocrità dominante del "fammi andare", dallo sguardo di lei che svaniva via via senza voltarsi, esattamente.

Lui aspettava. Sempre ad aspettare, aspettare, a fare una prima mossa che ci avrà pensato per anni a quella mossa, a come farla, a cosa sarebbe successo e cosa sarebbe potuto succedere, e poi al momento giusto non c'è nessuno dall'altra parte, nessuno a guardare la partita. Non c'è neanche, la partita, e lo sapeva bene, che non c'era, che non ci sarebbe stata, che non c'era mai stata veramente. Era come se invidiasse la vita di qualcun altro, solo che quel qualcun altro era proprio lui, o comunque lui come sarebbe stato se, come sarebbe potuto essere se. Pensò che era terribile avere tante aspettative per un futuro che sai impossibile, mentre il futuro reale ti sfugge di mano, diventa presente, passato, e tu non c'eri...
Addosso aveva l'odore pesante del caldo. Attraversava la notte circondato da un'aura di afa e sudore, da insetti senza nome che lo incrociavano di sfuggita indugiando di tanto in tanto sulla polo gialla, maledettamente gialla. Sperava in una doccia ma gettava un'occhiata continua all'acqua del mare, così placida e nera, là sulla destra. Però l'amava. L'amava anche se ogni tanto non pensava a lei ma ai due chilometri che mancavano all'albergo o alle goccie di sudore che gli correvano implacabili lungo petto. Anche se ogni tanto gli veniva qualche dubbio. Fosse solo il pensiero che la sera prima erano lì, insieme, ad aspettare un autobus notturno che non sarebbe mai passato, schiena contro schiena addosso a un lampione quasi storto dietro al capolinea, a parlare di qualcosa evitando tutto il resto... Poi ci fu lo sparo.


“Nella morte non c’è niente di triste, non più di quanto ce ne sia nello sbocciare di un fiore. La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte. Non fanno onore alla propria vita, la pisciano via. La cagano fuori. Muti idioti. Troppo presi a scopare, film soldi, famiglia, scopare. Hanno la testa piena di ovatta. Mandano giù Dio senza pensare, mandano giù la patria senza pensare. Dopo un po’ dimenticano anche come si fa a pensare, lasciano che siano gli altri a pensare per loro. Hanno il cervello imbottito di ovatta. Sono brutti, parlano male, camminano male. Gli suoni la grande musica dei secoli ma loro non sentono. Per molti la morte è una formalità. C’è rimasto ben poco che possa morire.”
(Charles Bukowski - Il capitano è fuori a pranzo)


Fu così che conobbe per la prima volta Hampton Kelly.

martedì, 6 novembre 2007

venerdì, 28 settembre 2007

Decisamente poco di moda

Qui un simpatico articolo su quanto costa, e perché, la chiesa cattolica allo stato e a quella parte di cittadini italiani che paga le tasse. Né più né meno quello che l'UAAR denunciava tempo fa, senza che chiaramente freghi qualche cosa a qualcuno (anzi, l'articolo sul sito di Repubblica sta scendendo lentamente verso il basso, dopo Pamela Anderson e Tom Cruise).

Mentre in Germania, se si vuole finanziare una chiesa, c'è l'apposita sovrattassa che migliora lo spirito e rincuora i volenterosi. Chissà da noi cosa succederebbe.


Del resto non vale neanche la pena parlare.


La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell'al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.

Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant'anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.


(Nazim Hikmet - Poesie d'amore)

lunedì, 16 luglio 2007

quattro

"Accetta quello che ti danno. Accetta la sveglia alle sei, la doccia troppo tiepida e i sei minuti di colazione, accetta le attese passate alla fermata a fremere per ogni autobus che sta lì indeciso se venire verso di te o voltare all'angolo, accetta il trenta barrato che arriva pieno e in ritardo mentre già dovevi essere in quel posto che chiamano lavoro. Accetta il suo sguardo la mattina, quando entri e ti squadra con indifferenza e ti dice buongiorno, quando le parli e ti ascolta come si ascolta qualcosa di lontano controvoglia, accetta le sue risposte che non colgono nulla di quello che metti là quasi per caso, accetta il fatto che il suo profumo a una cert'ora svanirà dietro qualche corridoio, e ti avrà detto 'a dopo' ma sai che non è vero. Accetta tutto questo, cazzo."
Prese fiato.
"Lo accetti perché alla fine ti fa comodo, perché è la melma in cui sguazzi tutti i giorni, caro mio, e lo sai bene. Vivi nello stesso fango da quando sei nato e non ci hai mai visto niente di strano, in fin dei conti, sei vaccinato dalla tua stessa vita contro la tua stessa vita, questa schifosa e fottuta vita in cui non hai niente da perdere."
Bevve un sorso. Era vino bianco, forte, lo mandava giù senza sentirlo, chiudendo per un attimo gli occhi con una smorfia. Henry se lo guardava, aspettando. Se c'era una cosa che gli riusciva bene, era aspettare.
"Vai avanti così finché ti regge, finché non impazzisci o muori di cancro o nella migliore delle ipotesi, la fai finita nel tuo letto, nel sonno. Ma questo è quello che speri tu."
Divenne come più confidenziale.
"Non si muore nel sonno. Non te lo dicono, ma c'è un istante del cazzo in cui lo senti, che te ne stai andando, in cui senti il fiato fetido e pesante della morte e il tuo respiro che si affanna e il cuore in gola e le cazzo di viscere che ti si contorcono, lo senti, e allora è anche peggio perché non te lo aspettavi, perché magari eri immerso in uno dei tuoi fottuti sogni dove tutto fila liscio, dove hai la tua vita perfetta e il tuo amore perfetto e la speranza ti sembra l'ultima a morire."
Lui lo sapeva. Se la speranza era veramente l'ultima a morire, era una grossa fregatura. Vuol dire che te ne andavi prima te, e non era per niente bello.
"Capisci, adesso? Può non fregartene un cazzo di quello che ti hanno detto, di quei quattro soldi che ci infileranno Dio solo sa dove. Tu stai lì per vedere il rivolo di sangue rosso e luccicante che gli scende dalla mascella, stai lì per togliergli il gusto di provare una morte che in realtà è una grossa delusione ma per lui è la degna fine della sua vita del cazzo, stai lì a strapparlo da altri trent'anni di vita e da un'onorevole morte nel suo letto, e stai lì per provare a cambiare le cose. Capisci perché Hampton Kelly deve morire?"
Capiva. La vita era maledettamente difficile. Un attimo eri lì a prendere un aperitivo sulla Mariahilfer strasse, dopo un po' magari eri all'hotel Sacher a sparare ad Hampton Kelly, cercando di far presto per non far chiudere la cucina del Wienerwald là vicino - con quel pollo fritto così malsano e così croccante, vagamente aromatico-, oppure eri tra la folla della Westbahnhof ad aspettare l'autobus per casa, oppure eri semplicemente morto. Lo sapevano tutti e due. Probabilmente lo sapeva anche un grosso signore giapponese, che si avvicinò sorridendo al loro tavolo, su cui fece precipitare una grossa cartella di plastica azzurra, e sempre sorridendo pronunciò qualche parola in inglese prima di allontanarsi.
"I signori vogliano scusarmi per il disturbo, e facciano buon lavoro."
Non si alzarono. Rimasero tesi nelle sedie di paglia del locale, guardando da lontano la berlina grigia che si stava portando via il signore sorridente.
"Apri tu, Paul?"
Annuì. Curvò la schiena spalmandosi interamente sullo schienale, sbuffò un sospiro di circostanza e fece scattare l'elastico della cartella. Diede uno sguardo al di là della ragazza bionda lì al bancone, cercando il vecchio albino padrone del konditorei, passando le dita lunghe e sudate di taglio, sul bordo del cartoncino. Trovò solo spalle di gente che non guardava, e prima dell'ansia di cambiare le cose lo colpì il ricordo dei cinquantamila, il sorriso pallido e orientale che se n'era appena andato e solo allora l'ansia di cambiare le cose - ma non lo avrebbe mai ammesso - e intanto sentiva il respiro ansioso e controllato di Henry che aspettava, l'odore di roesti e carne saltata che veniva dall'altra sala e quello di frutta ed alcol del suo stesso fiato. Si strofinò il dito meno unto sulla gamba destra e girò la pagina.

Adesso passeggiavano nel rumore bianco del Danubio che scorreva in sottofondo alle rare automobili che passavano di là. L'uomo dalla camicia avana aveva finalmente smesso di sorridere. Ci aveva fatto subito caso. Ultimamente la gente sorrideva troppo e senza motivo, e mai quando ce ne fosse veramente bisogno, pensava. Era un uomo col nasone e gli occhi piccoli e chiari, oltre la cinquantina.
"Vienna è proprio una bella città."
"Già", fece lei.
"E' proprio un peccato che vi ci troviate in una situazione del genere. Tuttavia, spero che avrete il tempo di ritornarci, ve la consiglio davvero."
Tirò fuori una mano illustrativa.
"Laggiù - vedete? - laggiù c'è lo Schoenbrunn, cioè non proprio laggiù ma da quella parte. Ad andare più avanti il fiume si biforca, c'è l'Alte Donau, e là vicino la sede delle Nazioni Unite." Aspetto che un camion finisse di superarli. "Siete già stati all'ONU?"
"No."
"Peccato, un giorno dovreste farci un salto. Ah, ci vuole il passaporto, soprattutto di questi tempi. Comunque, il problema per cui siamo a Vienna non è propriamente questo.
"Recentemente sono arrivate al nostro ufficio delle informazioni preoccupanti da nostri contatti nella dogana austriaca. Hampton Kelly sarà qui. In uno di quegli alberghi sfarzosi che puzzano di legno vecchio e tappeti pregiati, per una di quelle cazzo di conferenze in cui è stato invitato a parlare. Elargirà a quelli che lo ascolteranno un discorso classicamente ipocrita, godendosi questo briciolo di vacanza in questa città così fredda e romantica.
"Lo vogliono morto. Sapete? Hampton Kelly è quello che si dice un uomo antipatico, ma nel senso originale della parola. Sim-patico, viene dal greco, vuol dire 'soffrire con', ecco, ed è esattamente la persona con cui non vorreste condividere nulla.
"Troverete quell'Hampton Kelly, e chiaramente non sarete soli. Fatelo per quel cazzo che vi pare. Ci guadagnerete qualche giorno in questa città del cazzo, una città incapace di qualcosa di più di un sorriso di circostanza. Sapete? Qualcuno ha detto che non esistono Paesi, esistono solo città."
Ammettere una citazione è il primo passo verso l'onestà, si disse lui. L'uomo dalla camicia avana rallentò impercettibilmente, guardandosi intorno mentre continuava.
"Qualsiasi cosa farete, sorridete. Cercate d'essere simpatici con la manciata di persone che incontrerete - perché ne incontrerete, lo sapete bene - ma non vi aspettate che siano pronti a morire per voi. E' un po' un lavoro di merda, lo sapete, ma può dare soddisfazioni. Comunque vi capiterà più spesso di lasciarli a soffrire da soli, quando sarà il caso, ma l'incarico è vostro."
Si guardarono negli occhi, brevemente, senza sorridersi.
"L'organizzazione si fida di voi. Io, mi fido di voi. Quindi ci fidiamo di voi, ed è già un passo avanti. Non fate cazzate. Con la gente che lo vuole morto, scommetterei che c'è qualcuno che ci sta seguendo anche adesso mentre parliamo, ad esempio non mi va giù il violinista alla fermata di prima, ma vabbè."
"Suonava molto bene."
"Principalmente aveva un violino parecchio costoso, troppo per una stazione deserta come quella. In ogni modo, se ci fossero problemi chiamate questo numero."
Gli porse un pezzo di carta mezzo strappato, su cui erano stampate un certo numero di cifre.
"Bell'appartamento, avete trovato. Ah, a quest'ora avrebbero dovuto finire di cambiare la serratura, queste sono le chiavi nuove. Quando ve ne andrete penseremo noi a rimontare la vecchia. Che vi devo dire... usate poco il telefono, leggete bene quelle quattro righe che troverete in uno dei cassetti della cucina (mi pare il terzo) e non fate cazzate. Domande?"
"Veramente..."
"Pessima risposta. Quello che dovete sapere lo sapete già, o lo saprete fra qualche minuto. Se ci fossero problemi molto grossi, e mi auguro che non ce ne siano, il numero l'avete, passeremo a prendervi."
"Lei sarà a Vienna?"
"Io sono a Vienna adesso, mio caro. Per quanto ne so potremmo essere morti tutti e tre fra meno di mezz'ora." Fermò un taxi con la mano. "Divertitevi, o non ne sarà valsa la pena."
L'auto si allontanò nella direzione opposta. Smisero di camminare ed attraversarono la strada, salirono su un autobus e rimasero in silenzio, uno di quei silenzi che sottintendono veramente troppo, un silenzio che rispetto a qualche ora prima aveva perso una certa sensazione di freddo. Quando arrivarono a casa, quel sole sbiadito aveva già cancellato il ricordo del gelo della Stephansdom.
"Hai paura della morte?"
"Sì."
Glielo disse così, senza pensarci. Aveva paura della morte e di un sacco di altre cose. Aveva paura di quando le cose sarebbero finite, aveva paura dei seicento metri dalla fermata sul Ring al suo appartamento, aveva paura della luce che svaniva nel buio della notte, prima che potesse almeno provare ad impedirglielo. In qualche modo. C'erano cose che la terrorizzavano, altre che la facevano sussultare, ma la morte era là, una di quelle certezze cui rispondere subito, sì ho paura della morte. Una delle poche paure di cui era facile non vergognarsi, e pensò che il modo migliore per cominciare sarebbe stato confessarne qualcuna, e così stava facendo. Non era male come inizio.
Tutti i giorni, alla stessa ora, l'appartamento sul Ring si riempiva dell'odore più universale di tutti, l'odore della spazzatura portata via dal camion grosso e arancione della nettezza urbana. Quella era l'esperienza che aveva avuto, che più si avvicinasse al concetto di morte. Il rumore dei secchioni, uno sguardo alla finestra e l'odore già saliva inarrestabile in alto, attraverso i vetri socchiusi, ed oramai era inevitabile e ogni tentativo di fermarlo sarebbe stato vano, e sarebbe stata ovunque spazzatura, puzza, cenere. Ecco, se ne stava lì, con quella luce pallida spruzzata sulle pareti bianco latte, a pensare a quando fuori dalla finestra avrebbe ammirato con un'occhiata fragile e disattenta solo quella manciata di luci che ballavano al ritmo di altre luci, a quando sarebbe arrivato il buio della notte in cui tutto rischiava di svanire, la figura sfacciata e rassicurante dell'uomo con la camicia avana come loro due, e tutto il resto, e di preciso non trovava niente da dire.
Lui fece un salto in cucina. Allungò un'occhiata sulla cassettiera vicino al forno, e sentì il rumore dello sguardo di lei che faceva altrettanto. La affrontavano chiedendosi apparentemente se quello giusto fosse il terzo dall'alto o dal basso, ma nascondendo in realtà qualcosa di più radicato e profondo come la fame.
"Bistecca?"
"Dai."
Lui raccolse due paia di posate dall'apposito portaposate, e mentre lei stendeva le tovagliette ai due lati del tavolo quadrato là vicino, lanciò il grosso incartamento giallognolo sul divano bianco e innocente, che lo accolse con un tonfo sordo e penetrante.
"Quello dopo."

martedì, 10 aprile 2007

tre

Si ritrovò nella solita mattina sempre uguale e sempre diversa, mentre s'allacciava il terzultimo bottone della camicia. Era stupefacente come trovasse ogni giorno la forza di volontà per non indossare la camicia come fosse una maglietta, riducendo così a due o quattro le asole da riempire. Un sacco di tempo perso. Tempo che avrebbe potuto dedicare a scegliersi un taglio di capelli più semplice da pettinare, o anche a ricordarsi ogni santissima volta di staccare l'altra sveglia una volta alzato.
Alle otto e sedici minuti un trillo insistente squarciò il silenzio malsano che aleggiava per il corridoio dell'albergo/pensione. Si infilò subito una mano in tasca per fermarlo, dando un'occhiata qua e là come per scusarsi, nel caso qualcuno fosse risuscitato da una qualsiasi di quelle porte. Una volta sul ballatoio, iniziò a svanire l'odore di sonno grassiccio che si portava nelle narici; l'aria fredda si riconciliò col legno laccato dell'ascensore, la polvere vecchia delle biciclette inservibili incatenate al mancorrente e un lieve profumo di sigaro che proveniva dal resto del condominio.
Gli inconvenienti del sonno, già. Scivolò nella sala buffet con lo sguardo stanco e dolorante, alla ricerca svogliata di qualcosa che non peggiorasse troppo il fisiologico mal di stomaco di quando dormiva poco. Confidò nell'acqua bollente del tè per evitare i brividi di freddo che sarebbero seguiti, e pigliò due fette di quello che sembrava ciambellone al cioccolato, più una mela verdognola e grinzosa che aleggiava sul tavolo.
Si sedette accanto ad un tipo grosso e sorridente probabilmente straniero, capelli talmente bianchi che passò i tre minuti della bustina di earl grey tra il chiedersi se per caso qualcuno producesse tinte bianche da uomo, e patetici ripetuti assalti alla buccia verdognola e grinzosa. Perché a cosa serve avere un coltello di metallo, quando non riesce ad intaccare neanche una fottuta mela fuori stagione?
Si pulì la mano sul tovagliolo di carta assorbente, imprecando tra se e sé mentre mandava giù quel liquido scuro che odorava vagamente di cloro. Giorni addietro l'aveva chiesto esplicitamente, al portiere di notte.
"Si può comprare una bottiglia d'acqua?"
"Acqua minerale?"
"No, naturale."
L'uomo l'aveva guardato con disprezzo, sfoderando tutte le occhiaie previste dal suo ruolo più un supplemento legato alla scomodità del bancone, al nero sul collo della giacca bianca e alla luce bluastra sparata dallo schermo del computer.
"C'è quella del rubinetto."
"Ma è potabile?"
"Certamente", gli aveva risposto con orgoglio. "In Austria abbiamo l'acqua più buona d'Europa, viene dalle Alpi."
A parte la discutibile qualità dell'acqua delle Alpi - che sperimentalmente sapeva di neve sciolta, era acidula e metteva sete, quel tè sapeva di piscina ed era pure torbido. Inoltre ormai associava il bianco latte del tizio rubicondo (che poi aveva identificato come straniero sottintendendo che era più straniero di lui) alla squallida sensazione di sete dopo aver bevuto litri d'acqua, il che rendeva le cose tremendamente più difficili. Si infilò il cappotto sbuffando e passò dalla reception, dove il portiere di giorno girò la testa in una maniera tale che fu subito chiaro che c'era un pacco ed era per lui. Dopo poco si portò appresso il suo sorriso di convenienza (che teneva accuratamente da parte per le occasioni peggiori) fuori dalla porta scorrevole, indossò gli occhiali da sole aggiustandosi sapientemente la busta gialla e si incamminò verso il centro.

Erano ormai parecchi minuti che condividevano quel silenzio. Un silenzio scomodo, di quelli che sottintendono troppo, fastidioso come il rumore di zucchero caramellato che si stava spargendo per le strade di Vienna, che strideva così tanto col sapore di vin brulé che piano piano sobbolliva là da un lato, nell'indifferenza generale. Perché c'era il silenzio che meritava rispetto, il silenzio che si sentiva d'interrompere con qualche argomento sbiadito e provvidenziale, il silenzio da lasciar perdere, ma quello di quella mattina era un po' tutti questi insieme. Era un silenzio, ecco, di quelli che gran parte del mondo avrebbe ignorato, e che loro condividevano senza chiedersi troppo cosa significasse veramente, aspettando (senza crederci troppo, è chiaro) un'occasione qualsiasi per farla finita.
Condividevano anche una certa sensazione di freddo. Un freddo che accompagnava quelle parole non dette, mentre intorno continuava tutto quello che continuava, e sempre lì intorno qualche decina di esseri sconosciuti appariva per un attimo nella loro lista dei vivi, per tornare subito dopo nel più sereno grigiore del paesaggio circostante. Faceva freddo tra la Stephansdom e la stazione della metropolitana, tra le vetrine ingioiellate di Bulgari e il negozio di moda tutto trasparente, faceva freddo per loro e per gli ignari turisti che avevano sfidato l'alba un po' troppo presto per tornarsene in albergo veramente riposati, e quindi si lasciavano trascinare verso l'alto dalla scala mobile per gustarsi la lenta apparizione di quella piazza così contrastante.
Era lì che si interrogava sul senso di tutto questo, ed in particolare sulle conseguenze dell'invenzione della sveglia sulle abitudini comuni (perché in vacanza la sveglia per definizione perdeva il suo senso più classico, consacrandosi a un Fine ultimo che a lui comunque sfuggiva, per quanto ovvio e sublime), quando a lei squillò il telefono. A dire la verità era 'un' telefono. Quello nella tasca destra, che significava che tutto stava andando come doveva andare.
Attraversarono - sempre in silenzio, è chiaro - parte della piazza, schivando improbabili edicole a cielo aperto, fiorai e rivenditori di francobolli, così come una parte di quei turisti svegli da troppo che ingannavano tempo e stomaco con un bratwurst che faceva tanto tipico, spiegando a chi credeva fermamente nella dolcezza della colazione che dopotutto anche quella era Vienna, destreggiandosi con l'evidenza di un panino ingiustificatamente rotondo e intero e di una salsiccia chiaramente non tagliabile. Un popolo già quasi consapevole di dover sacrificare mani o guanti, per compiere adeguatamente la sacra omologazione al dio delle colazioni continentali, il wurstel. Le fontanelle erano chiuse per non gelare e le strade profumavano di neve; dopo poco erano al chiosco di legno.
"Prego?"
"Delle patate, grazie."
Lei ordinò con disinvoltura tre grossi cerchi di patate novelle, arrostiti insieme a più ragionevoli castagne e conditi con qualcosa che originariamente era cipolla, cipolla fortissima, inequivocabile cipolla mescolata ad altra cipolla e forse aglio, pastosa e rilucente sul giallo dorato di quei tuberi che di mattina evidentemente facevano tanto tipico. Apprezzava il suo coraggio (certo, meno di quegli occhi che lo guardavano evitandone lo sguardo e sostenendo il suo silenzio, o forse il loro silenzio perché apparteneva a entrambi, chissà, silenzio che comunque aveva trovato un modo per rompere).
"Patate e cipolle?"
"Sì."
"Potevano trovare qualcosa di più umano."
E lì, in quei momenti si faceva avanti la velata certezza che forse di modi ce n'erano di migliori.
"Perché mai?"
"Intendo, patate e cipolle alle otto di mattina, non è propriamente in incognito."
"A me piacciono, e poi è di strada."
Normalmente era dopo figure del genere che tutta la storia sul silenzio passava in secondo piano. Aveva consapevolmente portato avanti il suo malinteso quotidiano, peraltro neanche troppo influente, e poté tornare a riflettere su quanto ci fosse di patologico nella gente che alle otto del mattino si sparge per piazze e musei. Aveva ristabilito quel velo di precaria confidenza, tanto che condivise la profondità del suo pensiero.
"Evidentemente non hanno di meglio da fare", gli rispose lei, che intanto si era infilata su una delle tante strade laterali (in una piazza tutte le strade sono laterali) e stava scansando una vecchia col carrello della spesa.
"Sono in vacanza, l'hanno voluta loro."
Di sicuro la vecchia non era in vacanza. Come non era in vacanza nessuno di quei minisupermercati aperti quasi in centro, subito dietro l'angolo, ormai in gran parte d'Europa. Quella era la quotidianità.
"Forse non si aspettavano che la notte potesse essere così poco interessante, e quindi recuperano sul giorno. Forse è il loro primo giorno."
"Tutta quella gente?"
"Magari."
"Ma se ci pensi il turista è generalmente mattiniero. Lo incontri di mattina e all'ora di pranzo, e ad età ragionevoli quando è già buio da un po', ma la mattina sempre."
Il saliscendi del marciapiede gli infuse un ritmo che lo spingeva ad andare avanti. Meravigliosamente pulite, le strade di Vienna, nessun inconveniente che potesse interromperlo.
"Prendi l'autobus di mattina, ad esempio. C'è generalmente chi va a scuola, qualcuno che va a lavoro presto..."
"... i vecchi ... "
"... già, i vecchi che alle sette sono già ammucchiati qua e là a fare domande al conducente, eppoi i turisti. Maledetti turisti che ti affollano la banchina e indugiano su quelle cazzo di cartine per mezz'ora e poi ti chiedono candidamente da che parte sta il Colosseo."
"E che poi vanno a pranzo al Colosseo, che c'è il ristorante e ormai sono già là."
"Esatto, quella è gente che principalmente passeggia, e quello che è grave è che passeggia dalla mattina presto, e ci si mette pure la sveglia per farlo."
Superarono un bivio evidente verso il Danubio. Là le auto erano ancora poche, gli autobus rari e semivuoti, e a mano a mano che proseguivano i negozi si facevano meno numerosi.
"Ma alla fine che ti cambia?"
"Come, che mi cambia?"
"Voglio dire, evidentemente è gente che ritiene più importante svegliarsi alle sei e spremere tutti e seicento gli euro pagati all'agenzia, piuttosto che godersi la cazzo di città con più calma e qualche ora di sonno addosso. Se parti che devi vederti le cose obbligatorie, è finita."
Una vita fatta di paesaggi obbligatori. Lo colse un brivido di disgusto, a pensare ai ricordi come a diapositive sbiadite, tutte uguali, così meravigliosamente scomode e inutili (gran bella invenzione, le diapositive, grande successo - si disse con compiaciuto sarcasmo).
"Eh, ma questa gente è praticamente tutta la gente, è quello che mi torna strano."
"E' per questo che in albergo la colazione finisce alle nove. Vorrà dire che sarai condannato a non fare mai in tempo per yogurt uova speck burro e marmellata."
"O che mi rimarranno le uova strapazzate, l'aranciata e l'acqua del rubinetto."
Tragica prospettiva di vita, cioè di sopravvivenza. Peraltro questo rafforzava il suo ideale di casa, per quanto labile in quei tempi potesse essere un qualsiasi ideale, e se da un lato significava un rapido impoverimento era un'ulteriore ragione per mangiare fuori.
Non ci volle troppo per raggiungere la stazione del metrò.
"Qua vicino c'è la casa di Freud", disse lei.
"Dove è nato?"
"Mah, forse dove è morto, non ha importanza."
"Dove dobbiamo andare?"
"Alla stazione, sulla banchina."
"Sperando che non sia piena di maledetti turisti."
"Non lo sarà, è una fermata così inutile. Non so neanche dove siamo."
Era una di quelle fermate che hanno molto in comune col Danubio. Vagamente rossa. Non scese nessuno né dal primo né dal secondo treno, quindi ci fu quasi il rischio di condividere un altro precario silenzio, ma per fortuna dall'altro lato dei binari un altro essere umano iniziò un notevole repertorio classico di violino, dedicato alle facce annoiate pronte ad arrivare germanicamente puntuali in ufficio, e forse proprio al loro silenzio. Venti minuti dopo scesero tre persone, ed un uomo dalla camicia avana si affacciò (sul loro silenzio) biascicando un "Salve, signori" piuttosto sorridente, che accompagnarono tutti con un nuovo silenzio di gruppo, piuttosto corale, fino all'uscita sul lungofiume.

venerdì, 9 marzo 2007

due

"Non puoi dividere il mondo sempre nelle solite due parti!"
"Perché no?"
"Perché non funziona così!"
Infilò svogliatamente la mano sinistra nella ciotola delle noccioline. Mescolò quella massa unta e salata, fissando nel vuoto. Non era propriamente vuoto, ma non cambia molto.
"Cioè, vedila da un altro punto di vista." Ne inghiottì una decina. "Puoi farlo con cose semplici, che so, a chi piace e a chi non piace la cioccolata, ma diavolo non puoi venirmi a dire che c'è mezzo mondo che lo odia e l'altra metà che non vuole ammetterlo!"
L'altro gli rispose con l'aria più serena del mondo. Guardò con disprezzo quella mano che aveva violato la sua ciotola di noccioline.
"Ammetterai che c'è un fondo di verità..."
"No!". Mandò giù un sorso. "C'è un sacco di gente che non ha la minima idea di chi sia, Hampton Kelly, una grossa fetta che non gliene frega niente, se se ne resta vivo o ci lascia la pelle domani notte."
Riempì quell'attimo di pausa col fumo della sigaretta, provando inutilmente a plasmare una qualche figura con quell'aria malsana e puzzolente.
"Cosa dovremmo fare?"
Altra pausa. Era uno di quei discorsi che prevedevano molte pause, lo sapevano bene. Ma non uno di quei discorsi dove le pause contano più di quello che si dice, per loro fortuna.
"Beh, non lo so cosa dovremmo fare. Tu dici che hanno detto proprio lui?"
"Sì."
"E quanto?"
"Cinquantamila a testa, mi pare buono."
"Vabbè, sarà pure buono..."
"... poi sai come andrebbe a finire ..."
"No, non lo so come andrebbe a finire."
"Che oramai ci tocca."
"Ma non se ne parla proprio!" Assaggiò con cautela. "Avrò il diritto di decidere se ammazzarlo o meno?"
"Su, non fare come al solito..."
"Cazzo ma quando ti hanno chiamato?"
Quando lo avevano chiamato? Fece finta di pensarci un attimo.
"Stamattina sul presto, tu eri fuori."
"E hanno detto proprio Kelly?"
"Sì..."
Dopo un po', le noccioline sono tutte uguali. Un unico sapore secco e pastoso, per niente rotondo, che quasi gli dava fastidio. C'erano molte cose che gli davano fastidio.
"No, non lo possiamo ammazzare."
Pausa.
"Fosse solo perché non lo troviamo."
"Lo troviamo, lo troviamo..."
"Chi ci assicura che sia a Vienna?"
"Come chi ci assicura?!"
"Senti, a me questa storia puzza. Lo vogliamo fare fuori?"
"Beh..."
"Lo possiamo pure fare fuori, ma cazzo, Hampton Kelly!"
E qui seguì una specie di silenzio rispettoso, in cui fissarono di sfuggita la stanza accanto, tecnicamente piena. Avevano scelto un tavolo tecnicamente isolato, coi sedili di pietra e il soffitto di legno, e dei grossi lampadari di vetro color ambra che penzolavano minacciosi ad altezza d'uomo.
"Quello ci fa ammazzare!"
"Ma se è morto?"
"Non è morto!"
"Ma lo sarà."
"Certo, se lo ammazziamo noi. Ma qualcuno lo verrà pure a sapere..."
"Che è morto?"
"Non è morto! E verranno a sapere che siamo stati noi, cazzo, a Vienna!"
"Ora che c'entra Vienna?"
"Ma a chi altri verrebbe in mente di ammazzarlo a Vienna, scusa..."
"Beh, ce l'hanno detto."
"Appunto!" Inghiottì un altro sorso. "Se ce l'hanno detto a noi, significa che lo sappiamo, che... che bene o male possono arrivare a noi!"
"Non ti facevo così..."
"Come?"
"Dai, neanche fosse la prima volta..."
"Cosa c'entra? E' la prima volta che ammazziamo Hampton Kelly!"
Fecero silenzio. Arrivò un cameriere col porto, che depositò con calma lì da un lato. Era uno di quei camerieri anonimi, unti quanto le noccioline che puntualmente si portavano via, avvolto da un grembiule germanico insignificante e marrone.
"E' la prima volta che ammazziamo Kelly", fece non appena l'uomo unto scricchiolò via. "Non credo di essere pronto a tanto."
"Ora sei tu che esageri." Avvicinò cautamente le labbra al vino. "Ora per una volta che ci dicono in anticipo chi è..."
"Cacchio!"
"Voglio dire, è una cosa come un altra..."
"Hampton Kelly?"
"Sì, quel fottutissimo Hampton Kelly, non andrà in giro con la scorta..."
"Non a Vienna, certo", concordò, e bevve. "Ma poi che ci fa a Vienna?"
"Non me l'hanno detto."
"... come al solito. Immagino che non ti avranno detto altro..."
"Cinquantamila, Hampton Kelly, tra due giorni - stop."
"Ma gli hai parlato?"
"Beh, gli ho detto che probabilmente ci stavamo..."
"'Ci' stavamo??"
"... sì, e gli ho chiesto quando ci saremmo risentiti."
"E poi?"
"Mah, niente, si faranno vivi loro."
"Loro?"
"Dai, manderanno un corriere o qualcosa del genere..."
"Cioè non ti hanno neanche detto se richiamano?"
"No, cazzo, non passo la giornata al telefono!"
"Ma Hampton Kelly!!"
"Oh, la fai lunga... abbiamo accettato di peggio, vediamo a Vienna come va e alla peggio spariamo da qualche parte."
"Sarà." Finì il bicchiere e ci rifletté sù. "Spariamo in che senso?"
Domande del genere risvegliavano in lui un antico disprezzo. "Spariamo nel senso di sparire, cazzo, poi sono io quello che..."
"Porca puttana, dividi il mondo a metà con una facilità impressionante..."
"Ma tu negalo!"
"Che spariamo?"
"No, che metà del mondo lo odia."
"Cosa ne sai?"
"Tu lo vuoi morto?"
Se lo voleva morto... "Per cinquantamila euro?"
"Vedi, non vuoi ammetterlo", disse, prima di concentrarsi sul bicchiere. "Analisi perfetta, senza dubbio. Convincitene."
"Non sto dicendo che lo voglio morto..."
"Ma non stai dicendo che lo vuoi vivo."
"E con questo?"
"Con questo non vuoi ammetterlo, e quindi sei una delle metà del mondo."
"No, perché secondo te se fai la domanda al cameriere cosa ti risponde?"
"Che ne sa, il cameriere..."
"Appunto!! Non ha idea di chi sia, quindi non può volerlo morto."
"Non significa che lo voglia vivo." Spalancò l'occhio meno assonnato, per cercare quel cameriere. "Voglio dire, non vuole ammettere che lo odia anche se non lo conosce..."
"Ma non lo conosce!"
"Vorresti mai vivo qualcuno che non conosci?"
Era troppo tardi per riflettere su una domanda del genere. "Beh, no, ma..."
"Quel cameriere non ha la minima idea della differenza tra un porto e uno sherry, dai retta a me. Ti pare attendibile?"
"Cosa c'entra!?"
"Come cosa c'entra! E' il suo lavoro, cazzo..."
"Avrai tradotto male!"
"E' comunque il suo lavoro."
"Se è per questo è il mio lavoro ammazzare Hampton Kelly?"
"Suppongo di sì."
"E finirai per ammazzarlo comunque, anche se non vuoi ammettere che lo odi."
"Se 'qualcuno' sapesse rispondere a un telefono..."
"Quel cameriere non è legato ad Hampton Kelly almeno quanto te". Stavolta il bicchiere era vuoto, e ci rimase male. "Guardalo, è incazzato col resto del mondo, non distingue un porto da uno sherry. Non gliene può fregare niente se Kelly passa allegramente al mondo dei morti."
Non che fosse poi troppo sicuro che quello fosse effettivamente uno sherry. O un porto.
"Vabbè, lasciamo perdere. Alla fine ci toccherà ammazzarlo, quello stronzo."
"Vedi? Cominci ad ammettere di odiarlo..."
"Colpa tua, tua e di questa cazzo di mania di rispondere al telefono."
"Dovevo, lo sai bene."
"Beh, prepariamoci, perché oramai ci tocca." Vuoto. Appoggiò rumorosamente quel pezzo di vetro sul tavolo, e fece per alzarsi. "Ammazziamo quel figlio di puttana, e cerchiamo di non rimanerci secchi."
"Calma, prima toccherà aspettare un po'". Proseguirono verso l'uscita "Però se non lo ammazziamo, finisce che ammazzano noi..."
"Appunto!"
"Il rischio fa parte del mestiere."
"Il rischio e un mucchio di frasi ad effetto del cazzo?"
Se lo guardò. Tirò fuori una risata nervosa, una di quelle ben lontane dall'essere risate di felicità, o di divertimento, o entrambe. Andarono.
"Odio quel maledetto Hampton Kelly."
Sorrise, evidentemente aveva ragione. Metà del mondo, aveva detto. Loro erano in due.


Non avrebbe mai pensato che morire potesse essere così faticoso. Però il tizio con l'impermeabile giallo soffriva visibilmente, appeso con poche insufficienti falangi al cornicione davanti a lui. Dio, se sentiva nel suo sguardo implorante i muscoli induriti, che tremavano, la presa che cedeva, il terrore per quel volo di cinque piani a cui sicuramente non sarebbe sopravvissuto. Sentiva forte le mani maledettamente sudate, gli addominali contratti per aggrappare l'uno o l'altro piede a qualcosa che non riusciva a trovare, mentre quella figura gialla e malvagia si divincolava senza urlare.
Chissà poi perché uno dovrebbe urlare. Quello comunque non urlava. Era preoccupato, disperato, questo sì. Completamente consapevole di quello che sarebbe successo; assolutamente. Lottava, ma probabilmente non ci credeva troppo, anche se a dire la verità non avrebbe creduto neanche di finire in quel modo. Una morte per niente originale, senza dubbio; e in più sapeva perfettamente che non gli sarebbero bastate le forze neanche per afferrare la mano di qualcuno (che comunque non c'era).
Fissò quegli occhi piccoli e neri che si guardavano intorno senza attenzione. Che ci provava a fare? Non ci vedeva disprezzo nei suoi confronti, erano occhi freddi e distaccati come sanno essere solo gli occhi di una figura gialla e malvagia che precipita durante un sogno di bassa qualità, occhi piccoli e scuri. Era curioso come riuscisse a rovinare l'atmosfera di tante cose, troppe cose; a partire dai sogni, dove inevitabilmente era troppo furbo per non andare in giro da tutti i protagonisti del fottuto sogno facendo vedere quant'era bravo lui che se n'era accorto, e quindi rovinava tutto in maniera piuttosto idiota e desolante.
Niente, ormai era sveglio. Aprì gli occhi sbuffando, lanciò un'occhiata all'orologio e dimenticò gran parte di quello che aveva sognato. Gli sarebbe tornato in mente qualcosa verso mezzogiorno, ma di sfuggita, passando davanti ad una balconata vicino al Danubio, nient'altro.
Dall'altra parte della città, qualcuno si risvegliò dallo stesso sogno. La mattina era fredda e insignificante, squarciata da una luce altrettanto fredda e metallica, che poi era la stessa luce della Lange Gasse dove qualcun'altro ancora allungò disperatamente una mano nella penombra per fermare una sveglia inevitabile e indesiderata. Ci guadagnò l'illusione di altri quattro minuti per non dimenticare un qualche sogno che proprio adesso finiva di dissolversi, mentre una donna delle pulizie sveglia da troppo tempo sorpassava la stanza 217, due cani obbedivano svogliatamente alle necessità del padrone e il pasticciere grasso e biondo apriva la sua bottega di cioccolatini al marzapane e biscotti rancidi al burro rancido ingentiliti però da una soave copertura al cioccolato. Poi un portiere di notte si infilò in una vecchia Fiesta sbiadita, superando il padrone di cani che ormai poteva andare in ufficio tranquillo, accese il motore un po' freddo (che non esplose) e andò via contromano. Così finiva ufficialmente la notte. Il lampione stette sù ancora con un sibilo, poi si spense, ma non si aprì nessuna persiana perché nel nordeuropa non si usano, la luce è preziosa. Per quanto fredda e metallica. Per quanto scacciasse scocciata sogni e illusioni di chi vive la notte, salvando figure gialle e malvagie da una fine già scritta, chiudendo per sempre qualcosa che dopotutto non ricordi poi così bene e consegnando al mondo qualche altra scatola di pasticcini molli, costosi e scadenti, da assaggiare uno per uno facendo finta che forse ne vale davvero la pena.

sabato, 24 febbraio 2007

traduttore?


Cavolo, viviamo nel paese col miglior doppiaggio del mondo. Ci sono film e attori che devono tutto alla bontà d'animo del doppiatore, altri tipo Woody Allen che con Lionello hanno guadagnato molto. Ma cavolo, il traduttore. Dico, uno crede in te, si aspetta che ti mantieni abbastanza fedele alla sceneggiatura che stai traducendo, che magari adatti qualcosa in maniera intelligente al pubblico del tuo paese. E invece no.

Come un Superman qualsiasi (che viene da Krypton e guardacaso è allergico alla kryptonite), il simpatico traduttore ti cade sul titolo del film. Cioè ti trasforma un Eternal Sunshine of the Spotless Mind nel mediocre Se mi lasci ti cancello. E magari va a dormire tranquillo.
Ora, cosa puoi sinceramente aspettarti da un film che si chiama Se mi lasci ti cancello, con il noto Jim Carrey (tra l'altro dopo il successo di Una settimana da Dio, come declamava la locandina) e Kate Winslet, responsabile di cose tipo Titanic? Ti aspetti una commedia inutile in pieno stile statunitense, che non merita di certo i sette euro e cinquanta del biglietto, e quindi non lo vai a vedere.

Tre anni dopo, quando ti ritrovi tra le mani un dvd doppio, ti accorgi che:
  1. evidentemente il traduttore non legge sempre la sceneggiatura di cui sta cambiando il titolo;
  2. parte del pubblico spensieratamente ggggiovane che l'ha visto al cinema si sarà pentita dopo meno di venti minuti;
  3. certi attori in inglese rendono meglio;
  4. è davvero un gran bel film.
E quindi c'è da dire che è meglio vederlo, perché a parole si potrebbe dire che c'è lui che amava lei e però è finita come non doveva finire, e allora la soluzione era dimenticarsi (artificialmente) l'un l'altro, e però certe volte dimenticare non è la soluzione migliore, e quindi okay.

Intanto il governo esplode i suoi brandelli in cielo, si allargano le maggioranze e si restringono gli obiettivi, si insinuano ingerenze della religione nella laicità dello stato, si difende la democrazia e nuovi eroi appaiono sul fronte occidentale. Nuove letture, sperando che ci sia veramente qualcosa da guadagnare.

lunedì, 12 febbraio 2007

uno

Tutte le volte che attraversava di corsa i binari del tram sulla Lange Gasse, si chiedeva come diavolo fosse riuscito a trovarlo, quell'albergo. Non era a Vienna da molto, ma la prima serata gli era stata sufficiente per capire che si trovava in uno dei posti peggiori per cercare un albergo senza prenotazione, soprattutto di notte. Quando l'ebbe spuntata, era già l'alba, e ne sentiva ancora le conseguenze.
La Lange Gasse è una strada piccola e larga, dalle parti della più nota Alte Gasse, del municipio e dell'università, di cui aveva da poco apprezzato uno dei pub interni. Raramente aveva visto strade disegnate così perfettamente, senza un'inesattezza, con la pasticceria konditorei da un lato e un negozio di vecchi vestiti dall'altro, una fermata del tram asettica e minimale, poche automobili parcheggiate e una cassetta per le lettere. L'inconveniente di quelle notti di gennaio era la nebbia, con la sua atmosfera umida e ovattata, tale da impregnare la mappa che s'era procurato (comunque inservibile, con quella visibilità). Assieme ad un lampione insufficiente c'era però la porta della pension, due lastre di vetro scorrevole incastrate curiosamente in un vecchio edificio giallo e ben curato; accanto, il portone di ferro battuto da cui si entrava per fare prima, in comune con il resto del palazzo.
Quella notte si trascinò su per le scale in maniera più stanca del solito. Non si stupì neanche dell'ascensore di legno con i sedili di pelle e le porte manuali, come faceva normalmente, ma si limitò a sospirare dentro quell'aria che sapeva di vecchio, aspettando il quarto piano. Sulla sinistra c'era una grossa porta antipanico (come su ogni piano) che separava il condominio dai locali dell'albergo/pensione. Oltre, iniziava la moquette del corridoio interno, che percorse rassegnato a non capire come diavolo alla fine la sua stanza desse sulla strada, e non verso un probabile cortile.
Una volta vinta la serratura, chiuse la porta dietro di sé e si avviò verso il lavandino del bagno, a luci spente. Aveva preso la brutta abitudine di rasarsi la sera, o come in quel caso a notte fonda, e così fece (almeno poteva dormire un po' di più, anche se il risultato non era il massimo). Accese il neon sopra lo specchio, si sciacquò il viso con un’abbondante mano d’acqua calda, aprì la schiuma da barba e sostenne lo sguardo dell'uomo allo specchio.
Erano cinque giorni che era là, ed ancora non aveva avuto nessuna notizia. Lo avevano contattato il venerdì, e fino ad allora nessuno s'era più fatto vivo. Ma avevano pagato, e doveva aspettare. Dopotutto la città non era così spiacevole, a parte il freddo mortale e qualche difficoltà con la lingua. Alla peggio, gli era capitato di perdersi a più di un bivio evidente, complice l'oscurità che quasi sempre accompagna la notte, ma dopo un po' l'orientamento diventava fattibile.
Ancora una volta, si disse dispiaciuto. Terminata mezza guancia destra, gli era tornata in mente la vecchia promessa che ancora non era riuscito a mantenere. Rasoio monolama, cuttroath, un’esperienza che riteneva necessaria per il proprio percorso di uomo sulla terra. Aveva già dei problemi di suo a passare la dogana, questo sì, ma prima o poi doveva provare, possibilmente evitando di rimanerci secco. Tutta un'altra esperienza, sicuramente.
Probabilmente lo avrebbero contattato in giornata. Nei limiti dei fusi orari che non conosceva, certo, ma dal suo arrivo all'aeroporto non aveva ricevuto messaggi o telefonate. Odiava l'angoscia dell'attesa, quelle ore passate prima di capire che cosa avrebbe dovuto fare: forse perché gli impedivano di avere un controllo completo del suo lavoro e forse della sua vita, perché doveva accontentarsi di aspettare e accontentarsi di quello che sarebbe arrivato. L'attesa rendeva tutto troppo vulnerabile al caso, e questo lo sapeva anche troppo bene.
Pulì il rasoio affondandolo nell’acqua del lavandino. A pensarci bene odiava pure quel lavandino, e tutti i fottutissimi lavandini che non si tappano mai perfettamente, tanto che dopo trenta secondi sono già lì che si svuotano. Magari col rasoio monolama sarebbe bastato il getto dell’acqua per pulirlo, senza le sapienti manovre che doveva ripetere identicamente tutte le sere. Certo, i rischi di tagliarsi erano ovviamente maggiori, e c’era la fastidiosa eventualità di rimanerci secchi per qualche stronzata o un colpo di sonno. Forse era per quello, che non aveva ancora fatto il grande passo. Poteva provare di giorno, probabilmente era più sicuro.
Che poi non era l'attesa di per sé, ma il contesto in cui era inserita. Attendere faceva parte del suo lavoro. Accontentarsi, faceva parte del suo lavoro. Aveva passato un certo numero di anni della sua vita ad accontentarsi dell'incarico che gli era assegnato, e parte del suo compito consisteva nel non domandarsi più di tanto, riguardo alcunché. Le attese le riempiva facendo altro, preparando minuziosamente il futuro più prossimo, più frequentemente dimenticando dubbi e indecisioni che lo prendevano sempre più spesso. Era pagato per agire, ed il massimo che gli era concesso era stabilire se e come farlo, non perché farlo. E c'erano un sacco di cose che gli sfuggivano, non sempre bastava una notte di nebbia per accettarle fino in fondo.
Si tagliò. Troppo sonno, troppa stanchezza, e sbagliò la passata sul mento. Forse era meglio, col rasoio usa e getta, poteva permettersi qualche distrazione senza rischiare la pelle. Cercò di rilassarsi, si sciacquò la ferita ed andò avanti. Niente stronzate e tutto sarebbe filato liscio, per quello che ancora gli restava da fare, e arrivederci a domani o a dopodomani.
Dopotutto, parte della sua vita non era nient'altro che accettare il proprio ruolo nel mondo. E il suo ruolo era quello di chiunque appaia per qualche fugace istante nell'esistenza di qualcun'altro - anonimo e indispensabile. Funzionava come quando si ritrovava a incrociare gente per strada, e per sbaglio si accorgeva che ognuno di quei puntini intorno a lui probabilmente aveva una vita, delle aspirazioni, dei sentimenti - un suo ruolo, insomma. Un ruolo che ciascuno inevitabilmente riteneva svincolato da quello degli altri, o almeno autonomo da quello degli altri, ma che in realtà viveva degli altri, di quella moltitudine silenziosa e uniforme che appariva e scompariva ogni giorno. Vite e vite collegate tra loro nella maniera più debole possibile, e comunque collegate indissolubilmente l'una all'altra; ecco, tra i suoi compiti c'era probabilmente quello di restare nella parte del mondo che prima o poi verrà dimenticata, per sempre. Lasciare agli altri le proprie vite, e scomparire nella maniera più lucida, silenziosa e completa possibile in un oblìo che normalmente significa fine, ma che per lui era fondamentalmente sicurezza. Di sicuro, sicurezza fisica; ma a volte, guardando il nevischio appena accennato che si spargeva su una di quelle città di cui viveva le notti, sembrava come se in mezzo a quella coltre bianca e già sciolta ci fosse anche lui, e la sensazione non era delle migliori.
Finito. Si sciacquò nuovamente gli occhi e il volto, infilò la mano in una fessura nel muro e prese una vecchia saponetta quadrata, con cui s’insaponò velocemente. Passò la matita emostatica sul mento, e sopportò il bruciore che lo colse d’improvviso. Si sfilò la camicia, rimproverò il colletto nero di sudore e la gettò in un secchio d’acqua calda, strofinandola un po’ annoiato e un po’ controvoglia.
Poi squillò il telefono. Gli ci volle un po' per asciugarsi la mano destra e frugare nelle tasche della giacca.
"Pronto?", osò.
"Buongiorno, signor Porter."
Riconobbe la voce al telefono. Era uno dei contatti che lo chiamavano di solito, lo stesso del venerdì precedente. Però non era giorno, e non poteva fare a meno di notarlo.
"Domani mattina le lasceremo una busta presso la reception. Spero non ci siano problemi."
Anche lui, sinceramente.
"Assolutamente. Verso che ora..."
"Otto e mezzo. Troverà tutte le informazioni all'interno."
Guardò l'orologio: gli rimanevano quattro ore scarse di sonno. Mentre chiuse il telefono e si avvicinò al letto, lo colse un brivido di disgusto per quella comunicazione troncata così di corsa. Non che il suo lavoro lasciasse spazio a troppi convenevoli, certo, ma a volte aveva bisogno di un minimo di tatto, fosse solo per convincersi di non essere lui, il prossimo a morire.
A proposito, chi erano? Non che lo sapesse veramente. Non aveva mai visto di persona nessuno di quelli che lo avevano contattato, né ci teneva in maniera particolare. Era curioso il fatto che fosse disposto magari a non chiedersi perché faceva quello che faceva, che significato e che conseguenze avesse il suo ruolo nel mondo (a parte quelle immediate e scontate), mentre lo infastidiva categoricamente un trattamento del genere. Probabilmente era più facile addormentarsi di notte con la consapevolezza che la mattina sarebbe stata sempre uguale e sempre diversa, portando a termine il proprio compito nella maniera migliore possibile...
"Nella maniera migliore possibile". Lo ripeté a se stesso, tanto lo rappresentava. Cosa ci fosse al di fuori di quell'albergo e di quel telefono, non aveva avuto occasione probabilmente neanche di chiederselo fino in fondo. Era lì, a guardare la luce flebile ed evanescente che filtrava dalla finestra, a rispondere a chiamate sconosciute e a far fuori gente altrettanto sconosciuta. Preoccupandosi di rimanere pure lui sconosciuto, nella maniera migliore possibile appunto, ponendosi dubbi pericolosi alle tre di notte e rovinandosi il sonno per una chiamata troncata troppo presto. Essenzialmente era tutto qua.
Cos'era, il suo ruolo nel mondo? Alla fine non c'era poi troppa differenza tra lui e l'uomo della reception, che avrebbe dimenticato con solerte prontezza la faccia di chi, al mattino, sarebbe venuto a consegnargli una grossa busta gialla per il tizio della stanza 414. Entrambi erano lì a far quello che andava fatto, rispettando un codice che s'erano dati - o meglio, un codice che avevano accettato come parte fondamentale delle loro vite. Nient'altro. Quadro desolante ma realistico. D'altronde, in una vita in cui la sopravvivenza è già una prospettiva di tutto rispetto, non si può pretendere di meglio. Forse.
Perciò rimboccò alla meglio le lenzuola - ripiegate nel modo più odioso possibile, come si usa in Austria - e ci si infilò dentro, spegnendo la luce e lo spettacolo poco appagante di quella stanza vuota e spoglia come la sua vita. Ci mise un po' a cacciare dalla mente amare riflessioni sul più probabile dei futuri possibili, sul senso di tutto quello, sul declino dell'etica delle telecomunicazioni e su quanto fosse fastidioso ed umido il nevischio che lentamente stava ricoprendo lui e gran parte del mondo che lo circondava. Ci mise un po', ma ce la fece, nella maniera migliore possibile. Si addormentò perché era stanco; come nella vita accade tutte le volte tranne una, lo aspettava una nuova giornata.

domenica, 11 febbraio 2007

Effettivamente era autunno per tutti; se ne accorse mentre le scarpe scomode e bagnate risuonavano silenziose sulla promenade, senza fretta apparente. Fuori, la risacca di quel mare probabilmente celeste, che scivolava elegante lungo i sassi del bagnasciuga, conquistando di tanto in tanto i pochi scogli che ancora si vedono dal centro di Nizza, almeno a sporgersi un po'. Risuonava, dicevamo, nella palpabile tranquillità di quella mattina appena accennata; c'erano lui e l'asfalto rosso che ricopriva il grosso marciapiede del lungomare, lui e quel mucchio di palme stropicciate dal vento, lui e quell'odore di mare e di sabbia che prometteva una nuova giornata.
Mucchio, già. Un mucchio, un sacco, erano parole calde, quasi confidenziali - così almeno si disse. Di certo, lo mettevano a suo agio, ed aveva tutta la necessità di mettersi a suo agio, quantomeno con se stesso. Perché era autunno, certo. Perché era troppo tempo che non ritrovava il profumo dolce e salmastro di quella città, dei suoi vicoli che sapevano di pesce e di spezie, di spezie e di zucchero, e di cannella, e insomma di tutte quelle cose che si stavano svegliando insieme a lui.
Così si ritrovò nella città vecchia che era mattina abbondante. Non poté fare a meno di notarlo, perché le scarpe scomode e bagnate non risuonavano più nel rumore bianco del mare, e intorno iniziavano ad aprirsi negozi e bancarelle lungo la strada. Camminava tra grani di pepe d'ogni genere, riso, cioccolata, zenzero, cannella, paprika, peperoncini, pesce sotto sale, formaggi molli e stagionati, piatti di ceramica, souvenir, un insieme di cose che a pensarci bene era un mucchio di cose, e a pensarci ancora meglio non aveva mai visto da nessun'altra parte in vita sua. Almeno tutto insieme. Bastava fare pochi passi, e l'aria diventava pungente per il brie e il camembert dietro mezzo centimetro di vetro, tornava burrosa e croccante davanti alla pasticceria vicino alla fontana, e poi l'odore del sale, la puzza di pesce, sacchetti di anice e lavanda, pout-pourri e troppo altro.
Sentì il bisogno di tornare verso la pasticceria burrosa e croccante, e comprò quasi di nascosto tre biscotti grossi e gialli e farinosi, burrosi e croccanti almeno quanto tutto il resto. Non gli capitava raramente, di trovarsi a fare qualcosa di nascosto da se stesso. Era buffo (altra parola confidenziale) perché se ne rendeva conto quasi di sfuggita, e un po' ci rimaneva male, perché aveva letto su un libro di quelli comodi che 'è meglio mentire agli altri che a se stessi'. Poi però si rispondeva 'è la storia della mia vita', e continuava a fare quello che aveva iniziato, in maniera tanto furtiva quanto divertita, senza pensarci troppo.
Per esempio, non si chiese come diavolo facesse un libro ad essere comodo. Notò piuttosto che la pasta frolla si scioglieva letteralmente in bocca, si sentì soddisfatto dell'acquisto e proseguì verso un porticato. Lo riportò alla realtà la targhetta anni settanta che diceva che l'acqua non era potabile: doveva aggiudicarsi una di quelle curiose fontanelle che aveva visto, anni addietro, in gran parte della Costa Azzurra, quelle dove per far uscire l'acqua toccava girare un grosso pomello circolare.
Fosse stato per lui, avrebbe continuato così, a sorseggiare virtualmente quell'acqua che sapeva di ferro, un acqua che senz'altro si poteva dire arrugginita, e però era sufficiente dopo un biscotto così burroso e croccante come quello che ormai aveva praticamente finito. Ma come gli aveva detto qualcuno poco tempo prima, era autunno, e se ne accorse qualche passo più tardi, e il miscuglio tra quel mucchio di sensazioni inebrianti e questa consapevolezza non era più così caldo e rassicurante, tanto da non fargli notare che stavolta la fontanella l'aveva trovata davvero.


"Resta l’unico posto del mondo in cui vendete il sapone a peso."
Il rumore del campanello finì di squarciare quell’aria che sapeva di lavanda e sapone di Marsiglia. Passò poco, e la donna dietro al bancone emerse da quei vapori pungenti e surreali; si voltò lentamente, con un movimento studiato da molto, troppo tempo.
"Due anni."
Aveva smesso di fare quello che stava facendo, e guardava quell’unico cliente con un’occhiata di rimprovero disprezzo e nostalgia. Ad esser precisi, lo sguardo sapeva di rimprovero e disprezzo, ma gli occhi verdi puntati su di lui tradivano che c’era qualcos’altro, un sentimento latente che provava a farsi strada in quell'immagine di generica desolazione.
"E’ un sacco di tempo."
Non ci siamo. Avrebbe potuto dirle qualsiasi altra cosa, avrebbe potuto cercare la frase giusta al momento giusto, ma non c’era riuscito. Come al solito, più tardi se ne sarebbe pentito, ci avrebbe pensato su, fino a progettare il modo migliore per rispondere a quella che non era una domanda, e ovviamente sarebbe stato troppo tardi. Poi sarebbe stata l'ora di qualcos'altro, magari si sarebbe ricordato della fontanella che stava cercando, o di quanto era fastidioso il vecchio delle quattro e un quarto, o avrebbe fatto caso a quanto poteva essere bello e rassicurante il tramonto visto dalle Alpes-Maritimes. Ma adesso no, non era ancora il momento.
"Troppo."
E lei, lei intanto sapeva benissimo che non era l'unico posto del mondo a vendere il sapone a peso. E non sapeva solo quello. Probabilmente sapeva già tutto: cosa avrebbe detto lui, cosa avrebbe risposto lei, come sarebbe andata a finire, perché. O forse sapeva tutto questo fino ad un attimo prima che quel dannato campanello squarciasse l'aria a cui ormai apparteneva (o che ormai le apparteneva?). Stava lì, quasi immobile dietro al bancone, e lo fissava.
"... ho dovuto andare via di corsa, impegni un po’ ovunque, t’avrei chiamato..."
"Mi avresti chiamato? In due anni non hai avuto tempo?"
"In due anni non ho avuto occasione, volevo pure scriverti..."
"Ma non l’hai fatto". Puntellò le braccia dietro al bancone, verso di sé, e proseguì. "Volevi chiamarmi, ma non l’hai fatto. Volevi scrivermi, ma non l’hai fatto. E non è la prima volta, porca puttana, e non sarà l’ultima, lo sai benissimo. Due anni, potevi essere morto ammazzato in qualche fottutissimo paese e non l’avrei mai saputo."
Se la guardò da lontano, col tono e l'animo di chi non ha ragione, né tantomeno è convinto di avere ragione. 'Da lontano' rappresentava perfettamente la sua condizione, almeno in quel momento. Lontananza. Era tutto così maledettamente lontano, a pensarci bene.
"Ma adesso sono qui."
Gli versò addosso una risata densa d’amarezza e delusione.
"E' troppo tardi?"
"E' troppo tardi."
Era troppo tardi. Probabilmente è sempre troppo tardi. Si sarebbe detto che era la storia della sua vita e ci avrebbe ridacchiato su, se solo non fosse stato così impegnato.
"Ero passato per farti capire che mi dispiace, non è dipeso da me."
"Non dipende mai da te."
La conversazione, per quanto la riguardava, era conclusa. Passò a inscatolare qualche sacchetto profumato, giusto per dare l'idea del fatto che stava chiudendo e stavolta per sempre. Le passò accanto per uscire, anzi le scivolò accanto per uscire, col solito paio di scarpe scomode che scricchiolavano sul pavimento di cotto spesso, ma stavolta l'autunno era tutto per lui.
"Quanto tempo passerà prima che farai una scelta?"
Non rispose.
"Fatti vivo, se per sbaglio dovessi farcela."
Stava per risponderle che non dipendeva da lui, ma preferì allontanarsi in silenzio, senza turbare quell’ultimo momento che aveva sicuramente un suo significato. Tornò nella città, che puzzava di mare e di pesce, un odore che mai come ora gli riusciva familiare.


Non era poi così rassicurante, il tramonto visto dalle Alpes-Maritimes. Non era più rassicurante del tramonto visto da nessun'altra parte del mondo; era solo più confortevole, ma le cose non coincidono. Dopotutto cosa cambia? In più c'era un'angosciante sensazione di sospensione, la sensazione del parapetto di pietra bianca, lassù sul vecchio forte in cima a Sainte Agnès, e tutt'intorno le Alpi e le montagne e le colline, e verso sud il mare, con la costa che spaziava dall'Italia a una Nizza appena accennata, e sotto un vecchio giardino ben curato. Una distesa prevalentemente verde e azzurra, verde e azzurro che a mano a mano che scendeva la notte si mescolavano in un'unica tonalità, un miscuglio appunto, che però stavolta non sapeva dire se e quanto fosse caldo e confidenziale.
Quel tramonto non aveva nessun significato, come tutto il resto. Quel tramonto non bastava, come tutto il resto. Si chiese alcune cose, mentre aspettava, e dovette concedersi il lusso di non darsi una risposta chiara e definita. Dopotutto, pensò, non c'è niente di più curioso e ripugnante di essere fraintesi, è come mentire senza saperlo.
Mentire senza saperlo. Cominciò a chiedersi se la frase avesse effettivamente un senso, o se non fosse una delle tante altre cose cui rispondere 'è la storia della mia vita'. Mentire senza saperlo. E agli altri o a se stessi? Stava forse abusando del suo ruolo nel mondo o c'era effettivamente un significato in quello che aveva appena pensato?
E poi era veramente autunno per tutti? Era tutto così dannatamente complicato, a vederlo da lassù, tutto così chiaramente complicato, e pensò che prima o poi sarebbe tornata l'ora del prossimo pezzo di cioccolata, della prossima fontanella, e che tutto sarebbe tornato semplice e lineare. Ma quella no, quella non era una sensazione rassicurante, assolutamente.
Si stava facendo buio, e dovette fare più attenzione del solito per scendere la scala che portava sul terrazzo di quel semirudere. Non fece caso ai passi che risuonavano sui gradini di legno, su quelli di metallo della rampa esterna, sulla terra battuta del giardino, sui gradini di sassi e cemento che portavano al paese. Rimase in silenzio per un po', con se stesso e col resto del mondo. Ne aveva bisogno.


Non era il diretto delle quattro e un quarto, certo. Aveva troppe ore di veglia alle spalle, ma i posti erano più comodi, gli spifferi più tollerabili. Lasciò la valigia all'inizio del vagone e se ne sprofondò nel sedile aspettando di partire. E infatti dopo poco tempo il treno si mosse, lento come se avesse paura di vincere la sostanziale immobilità del viaggio, un viaggio sempre uguale.
Quanto a lui, si ritrovò dieci minuti dopo a sturarsi le orecchie prima e dopo le interminabili gallerie di confine - confine tra chi o cosa non importa - mentre cercava in una delle poche tasche qualcosa che assomigliasse a del cioccolato. Eccolo.
La cioccolata s'era sciolta lentamente, liberando una nota liquida fra dolce ed amaro, impreziosita da un corposo retrogusto di nocciola. Certo, era buona. Gustava soprattutto il piacere dell'attesa di un altro pezzo, e se lo gustava mentre misurava con gli occhi quanto fosse insignificante quello scompartimento, rispetto all'oscurità imminente che stava prendendo di corsa il posto del giorno e della sera. Tutto si rivelava per quello che era - un treno, sei sedili un corridoio deserto e un'immagine riflessa sul solito finestrino oscurato, e lui che guardava.
Ma non era più abituato a tutto questo. Aveva sonno, e si mise ben comodo. Forse troppo, tant'è che ad una delle fermate successive si tirò su di colpo, non appena intravide una figura che si faceva strada lungo il corridoio.
"Porca miseria!"
Si ricompose, appunto, e guardò fuori dalla porta trasparente dello scompartimento. Con gli occhi squadrò un tizio vestito di azzurro che spingeva un carretto metallico, tizio che raccolse una bottiglia di plastica e passò oltre. Accompagnò con lo sguardo l'uomo del bar che continuava il suo percorso traballante verso altre inutili carrozze, e sorrise. Sorrise finché non finì il corridoio e scomparve dalla sua vista, finché non rimase solo col filo di mal di stomaco che gli era tornato appena aveva sentito quelle due parole, pronunciate ancora una volta. Non era sollevato; ma sorrise, sorrise finché non si voltò da una parte e non si addormentò, disteso tra il sedile morbido e azzurro e la sua immagine riflessa sul vetro, sotto il comodo calore metallico di quella luce a neon che lottava da sola contro la nuova notte verso cui, ormai, stavano viaggiando.

domenica, 4 febbraio 2007

Roma di corsa

La mattina è diversa. Capita di ritrovarsi dalle parti del Celio, sotto un inaspettato sole di inizio febbraio, a guardare la domenica che si risveglia, lentamente. Ci sei tu che saranno dieci minuti buoni che salti da un marciapiede all'altro per non fermarti, e lì intorno ragazzini svegli da poco, gente che ha rispolverato una bicicletta, qualche turista.

C'è la città che corre. Quel mucchio di persone che normalmente guardi da lontano, là alle Terme di Caracalla, quando disgraziatamente il semaforo non vuole saperne di tornare verde. Ti ritrovi tra vite sconosciute - il tempo di incrociarle o superarle o farti superare - che non sono lì per caso: d'altronde fate tutti la stessa cosa, correte da qualcuno o lontano da qualcuno, correte per qualcosa, per ricordare, per dimenticare, semplicemente per correre.

Correte, già. E correndo il pensiero non scorre normalmente, è meno pesante, cadenzato dalla stanchezza che si fa sentire e dal rumore dei passi sulle foglie. La leggerezza dello schivare la pozzanghera, la leggerezza di quando il giro ricomincia ed incontri lo stesso tizio vestito di nero, di quando devi scegliere se fermarti a bere o passare a sinistra dell'albero e continuare. Una leggerezza che rende tutto così naturale, così semplice, perché l'unica fatica per cui c'è spazio è quella fisica, il resto non conta.

Così puoi accorgerti che dietro al Celio ci sono cose che non avevi notato. Strade dove vorresti abitare, palazzi inspiegabilmente simili a un castello, perfino un giardino dietro a uno dei tanti muri consacrati all'inutilità. Corri, ma non c'è fretta, e fai in tempo a riscoprire quel ritmo placido e cadenzato della vecchia che va a pranzo con le figlie, del padre in bici che si gira e aspetta il figlio, di lui e lei che l'ultimo giro lo fanno più di corsa, e ridono.

Fai in tempo a vedere quant'è più verde questa città - e non nel senso di parchi alberi e giardini - e quant'è diversa da quella che vivi normalmente, e magari a pensare che quella vera è proprio così, che dopotutto non è niente male.

domenica, 14 gennaio 2007

sottovoce, come piace a noi

Già, l'unica speranza forse è proprio in quella massa silenziosa e inerte, che un giorno per sbaglio potrebbe svegliarsi.

But it was all right, everything was all right, the struggle was finished. He had won the victory over himself. He loved Big Brother.


venerdì, 5 gennaio 2007

prati di tivo - madonnina dell'arapietra


Per sopravvivere in montagna serve avere il tempo dalla propria parte.
Tempo meteorologico o tempo e basta, l'importante è avere uno dei due.

Può capitare che il cinque gennaio si decida di fare un'escursione in una zona ancora nuova, il Gran Sasso, zona Prati di Tivo (comune di Pietracamela, 1500 metri). Tempo molto incerto: verso le 8.00, pioggia o nevischio a seconda della quota, freddo non eccessivo ma visibilità piuttosto bassa (non più di cinquanta metri, forse molti meno), poca neve. Equipaggiamento: scarponi estivi (un po' rigidi e un po' impermeabili, ma pur sempre estivi), vestiti caldi, una piccozza dovesse servire, bastoncini telescopici da escursionismo (sempre estivo).

La meta sarebbe la Madonnina dell'Arapietra, poco più di 2000 metri. Le scarsissime fonti su Internet parlano di percorso turistico, in estate, e di ciaspolata non difficile d'inverno. E' collegata con una seggiovia - chiusa, visto il tempo e l'innevamento scarso - agli alberghi di Prati di Tivo. Seicento metri di dislivello con un percorso estivo non segnalato.

Le condizioni meteo e il consiglio di un alpinista e due Carabinieri, ci spingono a salire direttamente seguendo la seggiovia, o mantenendola comunque bene sott'occhio. Si arranca per una mezz'ora, una breve sosta e ancora a far traccia su una neve spessa da cinque centimetri a circa mezzo metro, fino alla stazione intermedia. Lì le cose si complicano: la pendenza si fa più impegnativa, tanto da doversi aiutare con le mani; più avanti, bisogna cercare l'itinerario più sicuro, facendo attenzione a mantenere in vista piloni e cavi che scompaiono nelle nuvole, e soprattutto facendo attenzione a non scivolare, perché la pendenza non è poca e si cadrebbe per un bel po', con tutti i rischi del caso.

Più su, neve ghiacciata da evitare assolutamente, appoggi erbosi un po' scivolosi, qualche chiazza di roccia da superare con qualche difficoltà (ghiaccio). Il pendio è sempre più erto (non a caso ci hanno fatto una funivia), il rischio di scivolare crescente (gli appoggi sono quelli che sono), la caduta che ne conseguirebbe più pericolosa.

In montagna, come nella vita, bisogna avere il coraggio rinunciare. Dopo due ore e mezzo dalla partenza, a pochi metri di dislivello dalla meta (questo però si scopre dopo, al parcheggio: contare i piloni prima di partire sarebbe stato doveroso, vista la scarsissima visibilità), dietro-front. Poche cose sono difficili come cambiare verso di marcia, in un pendio innevato del genere: una di queste è dover proseguire parzialmente per la via di salita, ma al contrario. Bisogna poi cercare un'altra strada, per evitare le difficoltà quella di andata (ripida!) ma senza distanziarsi troppo dall'unico punto di riferimento nell'invisibilità circostante, la funivia. E quindi, giù alla ricerca di neve abbastanza alta da frenare, facendo attenzione ai punti in cui cambiare da destra a sinistra o da sinistra a destra, sfruttando il più possibile l'aderenza che possono dare cinque centimetri di neve su una zolla d'erba.

Ripido. Dopo un po', è un sollievo pure il freddo della neve nei calzini e dell'acqua nelle scarpe, se questo significa neve più alta e quindi presa maggiore. Giù, a destra e poi a sinistra e poi a piedi paralleli, con un lavoro di ginocchia e di equilibrio che porta, dopo non troppo, a ritrovare la stazione intermedia, la traccia dell'andata e, dopo un'ora e mezza dal dietrofront, la rassicurante banalità dei ragazzini che giocano sulla neve.


Cosa rimane? Una bella esperienza. Un forte dubbio che quella sia la strada consigliabile, d'inverno come d'estate. La consapevolezza che in montagna, col tempo brutto o potenzialmente tale, non ci si deve andare, e di che cosa comportano condizioni meteorologiche avverse. La conoscenza dei propri limiti, dei limiti e delle capacità dei compagni, di ambizioni e paure che nel gruppo devono conciliarsi, e che fanno esperienza. Un amore e un interesse crescente per la montagna, rispetto della montagna e, perché no, timore della montagna. Nuove teorie su come far asciugare gli scarponi fradici, su come si misura un pendìo, sul perché la tachicardia che ti sfianca all'inizio dopo un po' di metri è solo un ricordo. Curiosità su come si usi l'attrezzatura invernale (ramponi, piccozza, ciaspole e quant'altro), proposte e spunti per il futuro. Può capitare di perdere l'aggeggio di plastica che protegge becca e pala della piccozza, un aggeggio da sette euro e novanta, ma alla fine è stato divertente, è questo che conta. Dopo essere tornati sani e salvi a casa, certo, ed avere imparato qualcosa.