sabato, 24 febbraio 2007

traduttore?


Cavolo, viviamo nel paese col miglior doppiaggio del mondo. Ci sono film e attori che devono tutto alla bontà d'animo del doppiatore, altri tipo Woody Allen che con Lionello hanno guadagnato molto. Ma cavolo, il traduttore. Dico, uno crede in te, si aspetta che ti mantieni abbastanza fedele alla sceneggiatura che stai traducendo, che magari adatti qualcosa in maniera intelligente al pubblico del tuo paese. E invece no.

Come un Superman qualsiasi (che viene da Krypton e guardacaso è allergico alla kryptonite), il simpatico traduttore ti cade sul titolo del film. Cioè ti trasforma un Eternal Sunshine of the Spotless Mind nel mediocre Se mi lasci ti cancello. E magari va a dormire tranquillo.
Ora, cosa puoi sinceramente aspettarti da un film che si chiama Se mi lasci ti cancello, con il noto Jim Carrey (tra l'altro dopo il successo di Una settimana da Dio, come declamava la locandina) e Kate Winslet, responsabile di cose tipo Titanic? Ti aspetti una commedia inutile in pieno stile statunitense, che non merita di certo i sette euro e cinquanta del biglietto, e quindi non lo vai a vedere.

Tre anni dopo, quando ti ritrovi tra le mani un dvd doppio, ti accorgi che:
  1. evidentemente il traduttore non legge sempre la sceneggiatura di cui sta cambiando il titolo;
  2. parte del pubblico spensieratamente ggggiovane che l'ha visto al cinema si sarà pentita dopo meno di venti minuti;
  3. certi attori in inglese rendono meglio;
  4. è davvero un gran bel film.
E quindi c'è da dire che è meglio vederlo, perché a parole si potrebbe dire che c'è lui che amava lei e però è finita come non doveva finire, e allora la soluzione era dimenticarsi (artificialmente) l'un l'altro, e però certe volte dimenticare non è la soluzione migliore, e quindi okay.

Intanto il governo esplode i suoi brandelli in cielo, si allargano le maggioranze e si restringono gli obiettivi, si insinuano ingerenze della religione nella laicità dello stato, si difende la democrazia e nuovi eroi appaiono sul fronte occidentale. Nuove letture, sperando che ci sia veramente qualcosa da guadagnare.

lunedì, 12 febbraio 2007

uno

Tutte le volte che attraversava di corsa i binari del tram sulla Lange Gasse, si chiedeva come diavolo fosse riuscito a trovarlo, quell'albergo. Non era a Vienna da molto, ma la prima serata gli era stata sufficiente per capire che si trovava in uno dei posti peggiori per cercare un albergo senza prenotazione, soprattutto di notte. Quando l'ebbe spuntata, era già l'alba, e ne sentiva ancora le conseguenze.
La Lange Gasse è una strada piccola e larga, dalle parti della più nota Alte Gasse, del municipio e dell'università, di cui aveva da poco apprezzato uno dei pub interni. Raramente aveva visto strade disegnate così perfettamente, senza un'inesattezza, con la pasticceria konditorei da un lato e un negozio di vecchi vestiti dall'altro, una fermata del tram asettica e minimale, poche automobili parcheggiate e una cassetta per le lettere. L'inconveniente di quelle notti di gennaio era la nebbia, con la sua atmosfera umida e ovattata, tale da impregnare la mappa che s'era procurato (comunque inservibile, con quella visibilità). Assieme ad un lampione insufficiente c'era però la porta della pension, due lastre di vetro scorrevole incastrate curiosamente in un vecchio edificio giallo e ben curato; accanto, il portone di ferro battuto da cui si entrava per fare prima, in comune con il resto del palazzo.
Quella notte si trascinò su per le scale in maniera più stanca del solito. Non si stupì neanche dell'ascensore di legno con i sedili di pelle e le porte manuali, come faceva normalmente, ma si limitò a sospirare dentro quell'aria che sapeva di vecchio, aspettando il quarto piano. Sulla sinistra c'era una grossa porta antipanico (come su ogni piano) che separava il condominio dai locali dell'albergo/pensione. Oltre, iniziava la moquette del corridoio interno, che percorse rassegnato a non capire come diavolo alla fine la sua stanza desse sulla strada, e non verso un probabile cortile.
Una volta vinta la serratura, chiuse la porta dietro di sé e si avviò verso il lavandino del bagno, a luci spente. Aveva preso la brutta abitudine di rasarsi la sera, o come in quel caso a notte fonda, e così fece (almeno poteva dormire un po' di più, anche se il risultato non era il massimo). Accese il neon sopra lo specchio, si sciacquò il viso con un’abbondante mano d’acqua calda, aprì la schiuma da barba e sostenne lo sguardo dell'uomo allo specchio.
Erano cinque giorni che era là, ed ancora non aveva avuto nessuna notizia. Lo avevano contattato il venerdì, e fino ad allora nessuno s'era più fatto vivo. Ma avevano pagato, e doveva aspettare. Dopotutto la città non era così spiacevole, a parte il freddo mortale e qualche difficoltà con la lingua. Alla peggio, gli era capitato di perdersi a più di un bivio evidente, complice l'oscurità che quasi sempre accompagna la notte, ma dopo un po' l'orientamento diventava fattibile.
Ancora una volta, si disse dispiaciuto. Terminata mezza guancia destra, gli era tornata in mente la vecchia promessa che ancora non era riuscito a mantenere. Rasoio monolama, cuttroath, un’esperienza che riteneva necessaria per il proprio percorso di uomo sulla terra. Aveva già dei problemi di suo a passare la dogana, questo sì, ma prima o poi doveva provare, possibilmente evitando di rimanerci secco. Tutta un'altra esperienza, sicuramente.
Probabilmente lo avrebbero contattato in giornata. Nei limiti dei fusi orari che non conosceva, certo, ma dal suo arrivo all'aeroporto non aveva ricevuto messaggi o telefonate. Odiava l'angoscia dell'attesa, quelle ore passate prima di capire che cosa avrebbe dovuto fare: forse perché gli impedivano di avere un controllo completo del suo lavoro e forse della sua vita, perché doveva accontentarsi di aspettare e accontentarsi di quello che sarebbe arrivato. L'attesa rendeva tutto troppo vulnerabile al caso, e questo lo sapeva anche troppo bene.
Pulì il rasoio affondandolo nell’acqua del lavandino. A pensarci bene odiava pure quel lavandino, e tutti i fottutissimi lavandini che non si tappano mai perfettamente, tanto che dopo trenta secondi sono già lì che si svuotano. Magari col rasoio monolama sarebbe bastato il getto dell’acqua per pulirlo, senza le sapienti manovre che doveva ripetere identicamente tutte le sere. Certo, i rischi di tagliarsi erano ovviamente maggiori, e c’era la fastidiosa eventualità di rimanerci secchi per qualche stronzata o un colpo di sonno. Forse era per quello, che non aveva ancora fatto il grande passo. Poteva provare di giorno, probabilmente era più sicuro.
Che poi non era l'attesa di per sé, ma il contesto in cui era inserita. Attendere faceva parte del suo lavoro. Accontentarsi, faceva parte del suo lavoro. Aveva passato un certo numero di anni della sua vita ad accontentarsi dell'incarico che gli era assegnato, e parte del suo compito consisteva nel non domandarsi più di tanto, riguardo alcunché. Le attese le riempiva facendo altro, preparando minuziosamente il futuro più prossimo, più frequentemente dimenticando dubbi e indecisioni che lo prendevano sempre più spesso. Era pagato per agire, ed il massimo che gli era concesso era stabilire se e come farlo, non perché farlo. E c'erano un sacco di cose che gli sfuggivano, non sempre bastava una notte di nebbia per accettarle fino in fondo.
Si tagliò. Troppo sonno, troppa stanchezza, e sbagliò la passata sul mento. Forse era meglio, col rasoio usa e getta, poteva permettersi qualche distrazione senza rischiare la pelle. Cercò di rilassarsi, si sciacquò la ferita ed andò avanti. Niente stronzate e tutto sarebbe filato liscio, per quello che ancora gli restava da fare, e arrivederci a domani o a dopodomani.
Dopotutto, parte della sua vita non era nient'altro che accettare il proprio ruolo nel mondo. E il suo ruolo era quello di chiunque appaia per qualche fugace istante nell'esistenza di qualcun'altro - anonimo e indispensabile. Funzionava come quando si ritrovava a incrociare gente per strada, e per sbaglio si accorgeva che ognuno di quei puntini intorno a lui probabilmente aveva una vita, delle aspirazioni, dei sentimenti - un suo ruolo, insomma. Un ruolo che ciascuno inevitabilmente riteneva svincolato da quello degli altri, o almeno autonomo da quello degli altri, ma che in realtà viveva degli altri, di quella moltitudine silenziosa e uniforme che appariva e scompariva ogni giorno. Vite e vite collegate tra loro nella maniera più debole possibile, e comunque collegate indissolubilmente l'una all'altra; ecco, tra i suoi compiti c'era probabilmente quello di restare nella parte del mondo che prima o poi verrà dimenticata, per sempre. Lasciare agli altri le proprie vite, e scomparire nella maniera più lucida, silenziosa e completa possibile in un oblìo che normalmente significa fine, ma che per lui era fondamentalmente sicurezza. Di sicuro, sicurezza fisica; ma a volte, guardando il nevischio appena accennato che si spargeva su una di quelle città di cui viveva le notti, sembrava come se in mezzo a quella coltre bianca e già sciolta ci fosse anche lui, e la sensazione non era delle migliori.
Finito. Si sciacquò nuovamente gli occhi e il volto, infilò la mano in una fessura nel muro e prese una vecchia saponetta quadrata, con cui s’insaponò velocemente. Passò la matita emostatica sul mento, e sopportò il bruciore che lo colse d’improvviso. Si sfilò la camicia, rimproverò il colletto nero di sudore e la gettò in un secchio d’acqua calda, strofinandola un po’ annoiato e un po’ controvoglia.
Poi squillò il telefono. Gli ci volle un po' per asciugarsi la mano destra e frugare nelle tasche della giacca.
"Pronto?", osò.
"Buongiorno, signor Porter."
Riconobbe la voce al telefono. Era uno dei contatti che lo chiamavano di solito, lo stesso del venerdì precedente. Però non era giorno, e non poteva fare a meno di notarlo.
"Domani mattina le lasceremo una busta presso la reception. Spero non ci siano problemi."
Anche lui, sinceramente.
"Assolutamente. Verso che ora..."
"Otto e mezzo. Troverà tutte le informazioni all'interno."
Guardò l'orologio: gli rimanevano quattro ore scarse di sonno. Mentre chiuse il telefono e si avvicinò al letto, lo colse un brivido di disgusto per quella comunicazione troncata così di corsa. Non che il suo lavoro lasciasse spazio a troppi convenevoli, certo, ma a volte aveva bisogno di un minimo di tatto, fosse solo per convincersi di non essere lui, il prossimo a morire.
A proposito, chi erano? Non che lo sapesse veramente. Non aveva mai visto di persona nessuno di quelli che lo avevano contattato, né ci teneva in maniera particolare. Era curioso il fatto che fosse disposto magari a non chiedersi perché faceva quello che faceva, che significato e che conseguenze avesse il suo ruolo nel mondo (a parte quelle immediate e scontate), mentre lo infastidiva categoricamente un trattamento del genere. Probabilmente era più facile addormentarsi di notte con la consapevolezza che la mattina sarebbe stata sempre uguale e sempre diversa, portando a termine il proprio compito nella maniera migliore possibile...
"Nella maniera migliore possibile". Lo ripeté a se stesso, tanto lo rappresentava. Cosa ci fosse al di fuori di quell'albergo e di quel telefono, non aveva avuto occasione probabilmente neanche di chiederselo fino in fondo. Era lì, a guardare la luce flebile ed evanescente che filtrava dalla finestra, a rispondere a chiamate sconosciute e a far fuori gente altrettanto sconosciuta. Preoccupandosi di rimanere pure lui sconosciuto, nella maniera migliore possibile appunto, ponendosi dubbi pericolosi alle tre di notte e rovinandosi il sonno per una chiamata troncata troppo presto. Essenzialmente era tutto qua.
Cos'era, il suo ruolo nel mondo? Alla fine non c'era poi troppa differenza tra lui e l'uomo della reception, che avrebbe dimenticato con solerte prontezza la faccia di chi, al mattino, sarebbe venuto a consegnargli una grossa busta gialla per il tizio della stanza 414. Entrambi erano lì a far quello che andava fatto, rispettando un codice che s'erano dati - o meglio, un codice che avevano accettato come parte fondamentale delle loro vite. Nient'altro. Quadro desolante ma realistico. D'altronde, in una vita in cui la sopravvivenza è già una prospettiva di tutto rispetto, non si può pretendere di meglio. Forse.
Perciò rimboccò alla meglio le lenzuola - ripiegate nel modo più odioso possibile, come si usa in Austria - e ci si infilò dentro, spegnendo la luce e lo spettacolo poco appagante di quella stanza vuota e spoglia come la sua vita. Ci mise un po' a cacciare dalla mente amare riflessioni sul più probabile dei futuri possibili, sul senso di tutto quello, sul declino dell'etica delle telecomunicazioni e su quanto fosse fastidioso ed umido il nevischio che lentamente stava ricoprendo lui e gran parte del mondo che lo circondava. Ci mise un po', ma ce la fece, nella maniera migliore possibile. Si addormentò perché era stanco; come nella vita accade tutte le volte tranne una, lo aspettava una nuova giornata.

domenica, 11 febbraio 2007

Effettivamente era autunno per tutti; se ne accorse mentre le scarpe scomode e bagnate risuonavano silenziose sulla promenade, senza fretta apparente. Fuori, la risacca di quel mare probabilmente celeste, che scivolava elegante lungo i sassi del bagnasciuga, conquistando di tanto in tanto i pochi scogli che ancora si vedono dal centro di Nizza, almeno a sporgersi un po'. Risuonava, dicevamo, nella palpabile tranquillità di quella mattina appena accennata; c'erano lui e l'asfalto rosso che ricopriva il grosso marciapiede del lungomare, lui e quel mucchio di palme stropicciate dal vento, lui e quell'odore di mare e di sabbia che prometteva una nuova giornata.
Mucchio, già. Un mucchio, un sacco, erano parole calde, quasi confidenziali - così almeno si disse. Di certo, lo mettevano a suo agio, ed aveva tutta la necessità di mettersi a suo agio, quantomeno con se stesso. Perché era autunno, certo. Perché era troppo tempo che non ritrovava il profumo dolce e salmastro di quella città, dei suoi vicoli che sapevano di pesce e di spezie, di spezie e di zucchero, e di cannella, e insomma di tutte quelle cose che si stavano svegliando insieme a lui.
Così si ritrovò nella città vecchia che era mattina abbondante. Non poté fare a meno di notarlo, perché le scarpe scomode e bagnate non risuonavano più nel rumore bianco del mare, e intorno iniziavano ad aprirsi negozi e bancarelle lungo la strada. Camminava tra grani di pepe d'ogni genere, riso, cioccolata, zenzero, cannella, paprika, peperoncini, pesce sotto sale, formaggi molli e stagionati, piatti di ceramica, souvenir, un insieme di cose che a pensarci bene era un mucchio di cose, e a pensarci ancora meglio non aveva mai visto da nessun'altra parte in vita sua. Almeno tutto insieme. Bastava fare pochi passi, e l'aria diventava pungente per il brie e il camembert dietro mezzo centimetro di vetro, tornava burrosa e croccante davanti alla pasticceria vicino alla fontana, e poi l'odore del sale, la puzza di pesce, sacchetti di anice e lavanda, pout-pourri e troppo altro.
Sentì il bisogno di tornare verso la pasticceria burrosa e croccante, e comprò quasi di nascosto tre biscotti grossi e gialli e farinosi, burrosi e croccanti almeno quanto tutto il resto. Non gli capitava raramente, di trovarsi a fare qualcosa di nascosto da se stesso. Era buffo (altra parola confidenziale) perché se ne rendeva conto quasi di sfuggita, e un po' ci rimaneva male, perché aveva letto su un libro di quelli comodi che 'è meglio mentire agli altri che a se stessi'. Poi però si rispondeva 'è la storia della mia vita', e continuava a fare quello che aveva iniziato, in maniera tanto furtiva quanto divertita, senza pensarci troppo.
Per esempio, non si chiese come diavolo facesse un libro ad essere comodo. Notò piuttosto che la pasta frolla si scioglieva letteralmente in bocca, si sentì soddisfatto dell'acquisto e proseguì verso un porticato. Lo riportò alla realtà la targhetta anni settanta che diceva che l'acqua non era potabile: doveva aggiudicarsi una di quelle curiose fontanelle che aveva visto, anni addietro, in gran parte della Costa Azzurra, quelle dove per far uscire l'acqua toccava girare un grosso pomello circolare.
Fosse stato per lui, avrebbe continuato così, a sorseggiare virtualmente quell'acqua che sapeva di ferro, un acqua che senz'altro si poteva dire arrugginita, e però era sufficiente dopo un biscotto così burroso e croccante come quello che ormai aveva praticamente finito. Ma come gli aveva detto qualcuno poco tempo prima, era autunno, e se ne accorse qualche passo più tardi, e il miscuglio tra quel mucchio di sensazioni inebrianti e questa consapevolezza non era più così caldo e rassicurante, tanto da non fargli notare che stavolta la fontanella l'aveva trovata davvero.


"Resta l’unico posto del mondo in cui vendete il sapone a peso."
Il rumore del campanello finì di squarciare quell’aria che sapeva di lavanda e sapone di Marsiglia. Passò poco, e la donna dietro al bancone emerse da quei vapori pungenti e surreali; si voltò lentamente, con un movimento studiato da molto, troppo tempo.
"Due anni."
Aveva smesso di fare quello che stava facendo, e guardava quell’unico cliente con un’occhiata di rimprovero disprezzo e nostalgia. Ad esser precisi, lo sguardo sapeva di rimprovero e disprezzo, ma gli occhi verdi puntati su di lui tradivano che c’era qualcos’altro, un sentimento latente che provava a farsi strada in quell'immagine di generica desolazione.
"E’ un sacco di tempo."
Non ci siamo. Avrebbe potuto dirle qualsiasi altra cosa, avrebbe potuto cercare la frase giusta al momento giusto, ma non c’era riuscito. Come al solito, più tardi se ne sarebbe pentito, ci avrebbe pensato su, fino a progettare il modo migliore per rispondere a quella che non era una domanda, e ovviamente sarebbe stato troppo tardi. Poi sarebbe stata l'ora di qualcos'altro, magari si sarebbe ricordato della fontanella che stava cercando, o di quanto era fastidioso il vecchio delle quattro e un quarto, o avrebbe fatto caso a quanto poteva essere bello e rassicurante il tramonto visto dalle Alpes-Maritimes. Ma adesso no, non era ancora il momento.
"Troppo."
E lei, lei intanto sapeva benissimo che non era l'unico posto del mondo a vendere il sapone a peso. E non sapeva solo quello. Probabilmente sapeva già tutto: cosa avrebbe detto lui, cosa avrebbe risposto lei, come sarebbe andata a finire, perché. O forse sapeva tutto questo fino ad un attimo prima che quel dannato campanello squarciasse l'aria a cui ormai apparteneva (o che ormai le apparteneva?). Stava lì, quasi immobile dietro al bancone, e lo fissava.
"... ho dovuto andare via di corsa, impegni un po’ ovunque, t’avrei chiamato..."
"Mi avresti chiamato? In due anni non hai avuto tempo?"
"In due anni non ho avuto occasione, volevo pure scriverti..."
"Ma non l’hai fatto". Puntellò le braccia dietro al bancone, verso di sé, e proseguì. "Volevi chiamarmi, ma non l’hai fatto. Volevi scrivermi, ma non l’hai fatto. E non è la prima volta, porca puttana, e non sarà l’ultima, lo sai benissimo. Due anni, potevi essere morto ammazzato in qualche fottutissimo paese e non l’avrei mai saputo."
Se la guardò da lontano, col tono e l'animo di chi non ha ragione, né tantomeno è convinto di avere ragione. 'Da lontano' rappresentava perfettamente la sua condizione, almeno in quel momento. Lontananza. Era tutto così maledettamente lontano, a pensarci bene.
"Ma adesso sono qui."
Gli versò addosso una risata densa d’amarezza e delusione.
"E' troppo tardi?"
"E' troppo tardi."
Era troppo tardi. Probabilmente è sempre troppo tardi. Si sarebbe detto che era la storia della sua vita e ci avrebbe ridacchiato su, se solo non fosse stato così impegnato.
"Ero passato per farti capire che mi dispiace, non è dipeso da me."
"Non dipende mai da te."
La conversazione, per quanto la riguardava, era conclusa. Passò a inscatolare qualche sacchetto profumato, giusto per dare l'idea del fatto che stava chiudendo e stavolta per sempre. Le passò accanto per uscire, anzi le scivolò accanto per uscire, col solito paio di scarpe scomode che scricchiolavano sul pavimento di cotto spesso, ma stavolta l'autunno era tutto per lui.
"Quanto tempo passerà prima che farai una scelta?"
Non rispose.
"Fatti vivo, se per sbaglio dovessi farcela."
Stava per risponderle che non dipendeva da lui, ma preferì allontanarsi in silenzio, senza turbare quell’ultimo momento che aveva sicuramente un suo significato. Tornò nella città, che puzzava di mare e di pesce, un odore che mai come ora gli riusciva familiare.


Non era poi così rassicurante, il tramonto visto dalle Alpes-Maritimes. Non era più rassicurante del tramonto visto da nessun'altra parte del mondo; era solo più confortevole, ma le cose non coincidono. Dopotutto cosa cambia? In più c'era un'angosciante sensazione di sospensione, la sensazione del parapetto di pietra bianca, lassù sul vecchio forte in cima a Sainte Agnès, e tutt'intorno le Alpi e le montagne e le colline, e verso sud il mare, con la costa che spaziava dall'Italia a una Nizza appena accennata, e sotto un vecchio giardino ben curato. Una distesa prevalentemente verde e azzurra, verde e azzurro che a mano a mano che scendeva la notte si mescolavano in un'unica tonalità, un miscuglio appunto, che però stavolta non sapeva dire se e quanto fosse caldo e confidenziale.
Quel tramonto non aveva nessun significato, come tutto il resto. Quel tramonto non bastava, come tutto il resto. Si chiese alcune cose, mentre aspettava, e dovette concedersi il lusso di non darsi una risposta chiara e definita. Dopotutto, pensò, non c'è niente di più curioso e ripugnante di essere fraintesi, è come mentire senza saperlo.
Mentire senza saperlo. Cominciò a chiedersi se la frase avesse effettivamente un senso, o se non fosse una delle tante altre cose cui rispondere 'è la storia della mia vita'. Mentire senza saperlo. E agli altri o a se stessi? Stava forse abusando del suo ruolo nel mondo o c'era effettivamente un significato in quello che aveva appena pensato?
E poi era veramente autunno per tutti? Era tutto così dannatamente complicato, a vederlo da lassù, tutto così chiaramente complicato, e pensò che prima o poi sarebbe tornata l'ora del prossimo pezzo di cioccolata, della prossima fontanella, e che tutto sarebbe tornato semplice e lineare. Ma quella no, quella non era una sensazione rassicurante, assolutamente.
Si stava facendo buio, e dovette fare più attenzione del solito per scendere la scala che portava sul terrazzo di quel semirudere. Non fece caso ai passi che risuonavano sui gradini di legno, su quelli di metallo della rampa esterna, sulla terra battuta del giardino, sui gradini di sassi e cemento che portavano al paese. Rimase in silenzio per un po', con se stesso e col resto del mondo. Ne aveva bisogno.


Non era il diretto delle quattro e un quarto, certo. Aveva troppe ore di veglia alle spalle, ma i posti erano più comodi, gli spifferi più tollerabili. Lasciò la valigia all'inizio del vagone e se ne sprofondò nel sedile aspettando di partire. E infatti dopo poco tempo il treno si mosse, lento come se avesse paura di vincere la sostanziale immobilità del viaggio, un viaggio sempre uguale.
Quanto a lui, si ritrovò dieci minuti dopo a sturarsi le orecchie prima e dopo le interminabili gallerie di confine - confine tra chi o cosa non importa - mentre cercava in una delle poche tasche qualcosa che assomigliasse a del cioccolato. Eccolo.
La cioccolata s'era sciolta lentamente, liberando una nota liquida fra dolce ed amaro, impreziosita da un corposo retrogusto di nocciola. Certo, era buona. Gustava soprattutto il piacere dell'attesa di un altro pezzo, e se lo gustava mentre misurava con gli occhi quanto fosse insignificante quello scompartimento, rispetto all'oscurità imminente che stava prendendo di corsa il posto del giorno e della sera. Tutto si rivelava per quello che era - un treno, sei sedili un corridoio deserto e un'immagine riflessa sul solito finestrino oscurato, e lui che guardava.
Ma non era più abituato a tutto questo. Aveva sonno, e si mise ben comodo. Forse troppo, tant'è che ad una delle fermate successive si tirò su di colpo, non appena intravide una figura che si faceva strada lungo il corridoio.
"Porca miseria!"
Si ricompose, appunto, e guardò fuori dalla porta trasparente dello scompartimento. Con gli occhi squadrò un tizio vestito di azzurro che spingeva un carretto metallico, tizio che raccolse una bottiglia di plastica e passò oltre. Accompagnò con lo sguardo l'uomo del bar che continuava il suo percorso traballante verso altre inutili carrozze, e sorrise. Sorrise finché non finì il corridoio e scomparve dalla sua vista, finché non rimase solo col filo di mal di stomaco che gli era tornato appena aveva sentito quelle due parole, pronunciate ancora una volta. Non era sollevato; ma sorrise, sorrise finché non si voltò da una parte e non si addormentò, disteso tra il sedile morbido e azzurro e la sua immagine riflessa sul vetro, sotto il comodo calore metallico di quella luce a neon che lottava da sola contro la nuova notte verso cui, ormai, stavano viaggiando.

domenica, 4 febbraio 2007

Roma di corsa

La mattina è diversa. Capita di ritrovarsi dalle parti del Celio, sotto un inaspettato sole di inizio febbraio, a guardare la domenica che si risveglia, lentamente. Ci sei tu che saranno dieci minuti buoni che salti da un marciapiede all'altro per non fermarti, e lì intorno ragazzini svegli da poco, gente che ha rispolverato una bicicletta, qualche turista.

C'è la città che corre. Quel mucchio di persone che normalmente guardi da lontano, là alle Terme di Caracalla, quando disgraziatamente il semaforo non vuole saperne di tornare verde. Ti ritrovi tra vite sconosciute - il tempo di incrociarle o superarle o farti superare - che non sono lì per caso: d'altronde fate tutti la stessa cosa, correte da qualcuno o lontano da qualcuno, correte per qualcosa, per ricordare, per dimenticare, semplicemente per correre.

Correte, già. E correndo il pensiero non scorre normalmente, è meno pesante, cadenzato dalla stanchezza che si fa sentire e dal rumore dei passi sulle foglie. La leggerezza dello schivare la pozzanghera, la leggerezza di quando il giro ricomincia ed incontri lo stesso tizio vestito di nero, di quando devi scegliere se fermarti a bere o passare a sinistra dell'albero e continuare. Una leggerezza che rende tutto così naturale, così semplice, perché l'unica fatica per cui c'è spazio è quella fisica, il resto non conta.

Così puoi accorgerti che dietro al Celio ci sono cose che non avevi notato. Strade dove vorresti abitare, palazzi inspiegabilmente simili a un castello, perfino un giardino dietro a uno dei tanti muri consacrati all'inutilità. Corri, ma non c'è fretta, e fai in tempo a riscoprire quel ritmo placido e cadenzato della vecchia che va a pranzo con le figlie, del padre in bici che si gira e aspetta il figlio, di lui e lei che l'ultimo giro lo fanno più di corsa, e ridono.

Fai in tempo a vedere quant'è più verde questa città - e non nel senso di parchi alberi e giardini - e quant'è diversa da quella che vivi normalmente, e magari a pensare che quella vera è proprio così, che dopotutto non è niente male.