sabato, 10 novembre 2007

cinque?

L'amava, probabilmente da sempre. Era lì che scivolava in una notte di lampioni e silenzio, alla maniera in cui scivolano via le stelle in certe canzoni, nella sua serata tipo, una di quelle serate inutili che scivolano via brevi come solo la vita sa essere. Al quinto lampione si accorse che l'amava. Lei però era lontana, sempre troppo lontana, lontana quand'era vicina e ovviamente lontana quand'era lontana (coerente, dopotutto). Si sentiva forte, da quello di cui gli parlava, da quei piccoli stupidi spunti che annegavano sotto la mediocrità dominante del "fammi andare", dallo sguardo di lei che svaniva via via senza voltarsi, esattamente.

Lui aspettava. Sempre ad aspettare, aspettare, a fare una prima mossa che ci avrà pensato per anni a quella mossa, a come farla, a cosa sarebbe successo e cosa sarebbe potuto succedere, e poi al momento giusto non c'è nessuno dall'altra parte, nessuno a guardare la partita. Non c'è neanche, la partita, e lo sapeva bene, che non c'era, che non ci sarebbe stata, che non c'era mai stata veramente. Era come se invidiasse la vita di qualcun altro, solo che quel qualcun altro era proprio lui, o comunque lui come sarebbe stato se, come sarebbe potuto essere se. Pensò che era terribile avere tante aspettative per un futuro che sai impossibile, mentre il futuro reale ti sfugge di mano, diventa presente, passato, e tu non c'eri...
Addosso aveva l'odore pesante del caldo. Attraversava la notte circondato da un'aura di afa e sudore, da insetti senza nome che lo incrociavano di sfuggita indugiando di tanto in tanto sulla polo gialla, maledettamente gialla. Sperava in una doccia ma gettava un'occhiata continua all'acqua del mare, così placida e nera, là sulla destra. Però l'amava. L'amava anche se ogni tanto non pensava a lei ma ai due chilometri che mancavano all'albergo o alle goccie di sudore che gli correvano implacabili lungo petto. Anche se ogni tanto gli veniva qualche dubbio. Fosse solo il pensiero che la sera prima erano lì, insieme, ad aspettare un autobus notturno che non sarebbe mai passato, schiena contro schiena addosso a un lampione quasi storto dietro al capolinea, a parlare di qualcosa evitando tutto il resto... Poi ci fu lo sparo.


“Nella morte non c’è niente di triste, non più di quanto ce ne sia nello sbocciare di un fiore. La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte. Non fanno onore alla propria vita, la pisciano via. La cagano fuori. Muti idioti. Troppo presi a scopare, film soldi, famiglia, scopare. Hanno la testa piena di ovatta. Mandano giù Dio senza pensare, mandano giù la patria senza pensare. Dopo un po’ dimenticano anche come si fa a pensare, lasciano che siano gli altri a pensare per loro. Hanno il cervello imbottito di ovatta. Sono brutti, parlano male, camminano male. Gli suoni la grande musica dei secoli ma loro non sentono. Per molti la morte è una formalità. C’è rimasto ben poco che possa morire.”
(Charles Bukowski - Il capitano è fuori a pranzo)


Fu così che conobbe per la prima volta Hampton Kelly.

martedì, 6 novembre 2007