martedì, 10 febbraio 2009

Individuo o comunità?

Ieri sera, al solito Porta a Porta simpaticamente dedicato alla vicenda di Eluana Englaro (dedicato, nella migliore tradizione giornalistica, più che altro alle opinioni non richieste di chi con la vicenda non ha niente a che fare), c'era Rocco Buttiglione. Rocco Buttiglione che faceva notare come la Costituzione italiana non si basi sull'individuo, ovvero non garantisca all'individuo libertà e diritti che gli sono propri di-per-sé, ma piuttosto ponga dei limiti ai diritti individuali, limiti scaturiti dall'appartenenza a una comunità, le cui regole si impongono sul singolo cittadino.

E' una interessante lettura della Costituzione italiana. Buttiglione, peraltro, faceva notare come all'articolo 32 essa reciti

Articolo 32

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.


e che quindi lo stato può effettivamente imporre sul cittadino dei trattamenti sanitari, per disposizione di legge. Dimenticava saggiamente Buttiglione la frase immediatamente successiva, che impone che questi trattamenti non vìolino un diritto superiore a quello imposto dalla legge, il diritto al rispetto della persona umana.


È proprio il problema del diritto, che in questi giorni (e in genere a proposito di queste tematiche) viene affrontato frettolosamente, in maniera volutamente confusa, e poco chiara. Fino a che punto può spingersi la legge, nel sancire cos'è obbligatorio e cos'è imprescindibile in campo medico? Fino a che punto il diritto all'autodeterminazione della persona, alla scelta (non importa quando espressa) di sottoporsi o meno a un trattamento sanitario, è universale ed intoccabile?

La sedicente "cultura della vita" afferma un confuso principio di "sacralità della vita", cioè impone che il diritto dell'individuo si fermi quando le sue azioni potrebbero portare se stesso od altri a privarlo dell'esistenza. In altri termini, si può disporre del proprio corpo solo se ci si limita al rifiuto di terapie, anche se consapevoli dell'eventuale esito infausto che deriverebbe da quel rifiuto (si pensi a un'amputazione, o a un trattamento chemioterapico invasivo). Ed è qui che sorgono i problemi.

Da cosa deriverebbe questo diritto di imporre il proprio diniego a una terapia? Dal fatto che la terapia è appunto una terapia, cioè in base a qualcosa che risiede nella definizione stessa di terapia? Oppure in base a un più generale diritto di disporre del proprio corpo, diritto che può dunque imporsi ogni volta di fronte a qualsivoglia trattamento sanitario? Dove per "qualsivoglia" si intende un trattamento sanitario non obbligatorio, oppure uno obbligatorio che vada comunque contro il "rispetto alla persona umana" sancito dall'articolo 32 della Costituzione.

Questa domanda non viene posta. La si risolve con una più semplice classificazione del tale trattamento sanitario come terapia, o come altro, dove questa seconda categoria è quella "intoccabile", quella imprescindibile e irrinunciabile neppure in seguito a un'autonoma e cosciente espressione di volontà. Nella fattispecie, in questi giorni in cui si parla di pazienti in stato vegetativo permamente (dunque con coscienza definitivamente compromessa), ad essere classificata come altro è la nutrizione forzata.

Quello che viene da chiedersi è: è corretto determinare l'obbligatorietà di un trattamento sanitario, solo in base al suo essere o meno classificabile come terapia? È questo, che fa percepire nel malato o in chi gli sta vicino un accanimento, una violazione della dignità personale, l'etichetta "terapia" appiccicata alla tale pratica sanitaria?

Evidentemente no. Il problema è più ampio, e ridurlo al "è terapia/non è terapia" fa passare il messaggio che solo le terapie, possono essere oggetto di espressione della libera autodeterminazione della persona. Il problema è appunto tradurre il "sentire comune" (non maggioritario, perché non si tratterebbe di traduzione ma di imposizione) in un linguaggio scientificamente valido.

Traduzione che, per motivi sia tecnici che etici, ancora non è stata completata. In altri termini non c'è un accordo ragionevolmente universale su varie tematiche, tra cui appunto la classificazione della nutrizione forzata come terapia o come "altro", o la classificazione della morte cerebrale come morte effettiva. Punto di partenza dell'eventuale intervento del legislatore, quindi, dovrebbe essere la presa d'atto dell'esistenza di condizioni cliniche (ad esempio lo stato vegetativo persistente) che sono conseguenza dell'evoluzione dei protocolli di rianimazione, e che come tali si sottraggono (nella "percezione comune", con l'accezione di cui più sopra) ad una semplice classificazione "intuitiva" delle condizioni del malato (vivo/morto, ad esempio) e dell'invasività dei trattamenti sanitari. Si ha ad esempio di fronte il problema di un paziente in cui una lesione cerebrale ha compromesso definitivamente la coscienza, risparmiando però alcune funzionalità di base, come il rapporto sonno-veglia, la respirazione, le funzionalità dei vari apparati. Una condizione "innaturale" e "nuova", figlia solo dei progressi della medicina e delle pratiche di rianimazione, che consentono di mantenere in funzione un corpo in cui la coscienza è compromessa, in cui l'attività cerebrale è isolata dal resto dell'organismo.

Sembra irragionevole, la diffusa tendenza di più parti ad imporre il proprio sistema di valori (abilmente classificandoli non come propri, ma universali), ovvero la tendenza ad imporre - anche con provvedimento legislativo - una soluzione, sostituendo dunque al dibattito scientifico e alla coscienza dei singoli una "verità" calata dall'alto. Un intervento legislativo del genere va in direzione opposta alla soluzione più "naturale", che sarebbe quella di lasciare alla decisione del singolo la classificazione di un dato trattamento sanitario come irrinunciabile o meno, e in caso le modalità di espressione di questa rinuncia.

Letta nell'ottica del dualismo individuo-comunità, la soluzione di cui si discute in questi giorni (qui il testo) e l'originario (e ormai abbandonato) disegno di legge proposto da Marino e altri (qui il testo) vanno in direzioni diametralmente opposte. Mentre il disegno di legge di Ignazio Marino ed altri, garantiva all'individuo il diritto al rifiuto di qualsiasi genere di trattamento sanitario, il disegno di legge ora in discussione in Commissione Sanità impone sull'individuo la regola della comunità, relegando la volontà dell'individuo a semplice "indicazione" per il medico curante, e proibendo esplicitamente (conseguenza quasi ovvia del caso mediatico montato intorno alla vicenda Englaro) l'espressione della volontà di rifiuto dell'alimentazione e dell'idratazione:

Alimentazione ed idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze e non possono formare oggetto di Dichiarazione Anticipata di Trattamento.

Di conseguenza, la comunità (sarebbe più corretto dire il legislatore) impone la sua soluzione al problema scientifico, etico e personale dell'invasività della nutrizione forzata, in malati la cui coscienza è definitivamente compromessa, in cui cioè il ripristino di funzioni superiori è impossibile (a meno di probabilità insignificanti, certamente inferiori alle tante "probabilità negative" cui si va incontro nei vari trattamenti sanitari). Ad esser precisi, il legislatore esclude la possibilità di scegliere anticipatamente di rifiutare la nutrizione forzata (mediante la Dichiarazione Anticipata di Trattamento, espressa nei modi previsti dallo stesso disegno di legge). Non si pone esplicitamente un divieto al rifiuto, quando avviene da parte del paziente cosciente eppure non autosufficiente (come invece prevedeva il decreto-legge rifiutato da Napolitano e poi presentato come disegno di legge nella "corsa contro il tempo" finita ieri), anche se tra le righe quest'intenzione sembra comunque esserci.

Il disegno di legge sottrae, quindi, all'arbitrio dell'individuo la possibilità di scegliere anticipatamente del proprio "futuro terapeutico" in caso di perdita di coscienza, più in particolare impedisce il rifiuto preventivo della idratazione e della nutrizione artificiali. Perché, viene da chiedersi, non si lascia all'individuo la possibilità di decidere anticipatamente, assumendosi le ovvie responsabilità che una scelta anticipata comporta (come il fatto che si potrebbe cambiare idea, ad esempio)?

Si maschera da tutela di un sedicente "diritto alla vita" dell'individuo, la riduzione del suo diritto all'autodeterminazione, della sua possibilità di scegliere come e fino a che punto far disporre del proprio corpo. Si trova una soluzione legislativa a un problema che legislativo non è, intervenendo nel dibattito scientifico-etico con l'imposizione della risposta esatta, con l'introduzione di un sedicente "punto fermo" che starebbe, almeno a sentire le parole dei propugnatori di questo provvedimento, alla base dell'umanità nel senso più ampio del termine.

Contrapporre poi la "cultura della vita" alla "cultura della morte", propagandando come "lotta di libertà" quella che nei fatti è una riduzione della libertà dell'individuo, è un atteggiamento di sterile prepotenza di un sistema di valori (e verrebbe da pensare che sia proprio quello cattolico, esaminando chi e come è intervenuto nel dibattito sul "caso" Englaro) nei confronti della molteplicità di posizioni che si hanno, com'è naturale, nei singoli individui. Prepotenza sterile, perché non porta a nient'altro che un'imposizione legislativa, inevitabilmente percepita come ingiusta da chi in quel sistema di valori non si riconosce, che non va a risolvere un problema peraltro ancora irrisolto, ma pone solo un paletto forzato e per questo "artificiale" all'autodeterminazione dell'individuo.

Riletto nell'ottica suggerita dalle parole di Buttiglione, l'intervento legislativo va a sottolineare che sono le regole della comunità, quelle che prima di tutte le altre l'individuo deve seguire. Che la sfera delle libertà personali è limitata intimamente dall'esistenza di un sistema di valori "ufficiale", propagandato come "cultura della vita" ma riconducibile piuttosto a una delle tante posizioni della dottrina cattolica (dottrina che con la "cultura della vita", nel senso letterale del termine, ad un esame più attento ha poco a che fare, se ci si svincola dalla propaganda e si vanno ad esaminare le varie posizioni al di là di quelle "di facciata" contro l'aborto e l'"eutanasia"). Si sottolinea, quindi, una supremazia dello stato che verrebbe da definire illiberale, nella misura in cui va ad imporsi sul cittadino mediante un trattamento sanitario obbligatorio: e il punto è che quest'obbligatorietà non è la stessa che magari avrebbe una profilassi d'urgenza contro un'epidemia imminente, perché quest'ultima interesserebbe la comunità, mentre la nutrizione forzata e le altre pratiche mediche di "mantenimento in vita" di pazienti in stato vegetativo interessano l'individuo e lui solo.

Che c'è di male, viene dunque da chiedersi, nel pensare che sia normale poter imporre, anticipatamente o al momento, il proprio rifiuto ad un mantenimento in vita forzato ed invasivo, quando la prognosi è di non reversibilità della perdita di coscienza? Affermare il contrario, oltre che a sottoporre il malato ad una "ingiustizia" (perlomeno percepita, in un campo dove "giusto" e "sbagliato" non possono avere una definizione solo legislativa), crea un pericoloso precedente nel rapporto comunità-individuo, in particolare nel rapporto tra lo stato e la vita del cittadino. Precedente che sarebbe facilmente estendibile ad altre tematiche, come ad esempio quella dell'aborto, perché va nella stessa direzione di quella che la chiesa cattolica propaganda come "sacralità della vita", ma che altro non è che l'imposizione di un sistema di valori non universali che vanno a definire cos'è la vita, come e fino a che punto se ne può disporre, sottraendo al dibattito scientifico e all'autodeterminazione del singolo una tematica di rilevanza fondamentale.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Stasera Littizzetto ha notato che ci si sbatte tanto sul principio di imporre la nutrizione a tutti i malati, volenti o nolenti, quando a Milano, dall'inizio dell'anno, sono morti 8 barboni.
La sua proposta è di nutrire i barboni e non fa una piega.
L'iposcrisia di quelle due righe di dl sta tutta qui.
Se venisse preso alla lettera, si dovrebbe impedire che qualsisi persona si lasci morire di fame.
Ma la cosa è chiaramente impossibile oltre che ridicola.
Inoltre sarebbe una norma da stato paternalistico, quale non è nessuno stato civile del mondo.

Volevo però dire che la posizione dei cattolici non è così netta come sembra.
Insomma non sono tutti come Binetti e Buttiglione.
Ho sentito, per esempio, la Bindi pronunciarsi in modo molto duro contro Avvenire.
Il problema è che le voci critiche si sentono poco e se in disaccordo, tacciono quasi per una forma di sudditanza nei confronti del potere.
Questo forse fa di loro una forza poco matura.

Anonimo ha detto...

http://newrassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=KQM60

Trovato sul sito di Bachelet.

Anonimo ha detto...

http://www.dongiorgio.it/principale.php?id=24