martedì, 29 dicembre 2009

quindicimila (non nel senso degli yoghurt)

Sulle solite notiziole laterali di Repubblica appare oggi la sensazionale scoperta di una quercia che, autoclonandosi in una maniera che fatico a comprendere anche dopo una superficiale lettura dell'articolo, risalirebbe a tredicimila anni fa, surclassando di fatto il precedente record conosciuto stabilito da un pino norvegese di 9000 anni.
Dopo aver espresso la doverosa solidarietà nei confronti di questo pino, così ingiustamente e approssimativamente scalzato dal meritatissimo gerontoprimato, ero lì che come al solito mi interrogavo sul senso della vita e di tutto il resto (a proposito, la giraffa landisce), quando profonda dentro di me si è sollevata una corale acclamazione: minchia!
Sopravvivere tredicimila anni dev'essere infatti parecchio difficile. Anni ed anni di soprusi, di lotte per la sopravvivenza, di invidia tra pini e querce collocati in zone geografiche ora diverse ma prima magari no, ma soprattutto di culture che si succedono. Una questione di cultura che per le piante, fortunatamente, si riduce a una questione di coltura: se non ti mangiano, o non ti estirpano, o ancora meglio non ti trovano, sopravvivi liberamente a patto di trovare qualche sostanza nutritiva stiracchiando ritmicamente le radici nell'humus circostante.
E per un essere umano? Tredicimila anni probabilmente sono parecchi anche da un punto di vista evolutivo, ma non è questo il punto. Il punto è che in tredici secoli, o anche solo in trecentoventuno anni, il mondo ha il cattivo gusto di cambiare in una maniera impressionante. Le culture si affievoliscono, nascono e muoiono, variano, mutano, cozzano, si mescolano e si annullano e rinascono e soccombono e si circondano in maniera sempre più vorticosa, violenta, incomprensibile, tanto irreversibile e irreparabile quanto spontanea e naturale. Crescono, per dirla con una parola sola: dove la crescita non è verso il meglio, ma verso il più adatto (anche perché mi riesce difficile ritenere certe tendenze recenti come il prodotto più moderno ed attuale di una tensione verso la Perfezione). Crescono, e la crescita può implicare nascite e morti, accorpamenti e amalgame così come oblii e intensi cancellamenti.
Ma come si fa a vivere tredicimila anni e a stare dietro a tutti questi cambiamenti? Già è difficile passare da un mondo senza elettricità a un mondo con l'elettricità, da un mondo dove la panna si monta con la frusta a mano ad un mondo con il montapanna automatico o peggio ancora con la panna spray, da un mondo in cui il pesce si cucina a un mondo in cui si spendono un sacco di soldi per mangiarlo crudo. Figuriamoci cosa dev'essere farlo per trecento, tremila, tredicimila anni. Significherebbe partire baldanzosi con le proprie convinzioni in un mondo simpaticamente semivuoto, ed affrontare tutte le altre convinzioni, affrontare le varie messe in discussione dei propri ideali che non sarebbero necessariamente tutte costruttive, sormontabili, amichevoli. Soprattutto sarebbero tante.
A un certo punto, per sopravvivere tredicimila anni si dovrebbero fare delle scelte. A un certo punto anche un pino è troppo vecchio per lottare, per reagire, per imporre la propria visione del mondo non come soluzione-per-tutti ma come soluzione-per-sé, cioè rivendicando con forza non la propria supremazia, ma il diritto ad avere propria dignità in quanto individuo. Uno strenuo antirazzista già fa fatica a sopravvivere a una seconda guerra mondiale, che di anni ne dura solo sei. Di fronte a sé ha tre soluzioni: rimanere antirazzista, e soccombere; rimanere antirazzista, ma fingere di non esserlo; smettere di essere antirazzista, e cambiare idea. Nel primo caso è morto, nel secondo caso è come se lo fosse, nel terzo caso non è più lui.
E se dopo la seconda guerra mondiale ce ne fosse una terza, egli (visto che per ipotesi sopravviverà tredicimila anni) in qualche modo la fa comunque franca. Ma è altamente improbabile che la faccia franca rimanendo invariato e invariabile, conservando il suo antirazzismo e la sua passione per la panna montata a mano, per la spigola all'acqua pazza, per le lampade ad olio. Cambierà, in continuazione, imparando molto e soffrendo un po', mettendo in discussione quasi tutto, accettando anche cose che sono piccole negazioni di lui stesso.
Cosa resta dunque dell'uomo che era quando è venuto al mondo? Cosa resta di quella quercia, di quel pino (che, nonostante la sua millenaria sopravvivenza, tuttora subisce siffatte californiane umiliazioni), della ricetta originaria della Tarte Tropezienne e del primo Omero, di Creep dei Radiohead dopo la discutibile cover di Vasco, dell'horizon de ma folie e delle lingue perdute, dei Maya e dei primi spaghetti alla carbonara, del faro di Alessandria e della voce di chi è morto costruendo le piramidi? E se tutto questo sparisce, si evolve, si dimentica, cos'è che resta veramente? Resta solo il percorso che si è fatto, resta solo il filo e non i panni stesi, il fiume e non la barca che ci scivola sopra?
Forse non siamo fatti per vivere tredicimila anni, perché le cose di cui non possiamo fare a meno sono tutto sommato troppe, e fragili, troppo fragili per sopravvivere a tutto quel lasso di tempo. In tredicimila anni un sorriso perduto o lo si dimentica, o si muore per esso; non c'è spazio per À une passante di Baudelaire, non c'è spazio per un passato che si farebbe sempre più gravoso, irrecuperabile, o peggio sempre meno importante (meno indispensabile, meno personale, meno proprio), fino a sparire del tutto. Magari anche una quercia, se potesse, sfoglierebbe ogni tanto un album dei ricordi, magari è proprio per questo che per sua fortuna non ha dita, ma solo radici.

sabato, 15 agosto 2009

Che verso fa la giraffa?

Mi suonerebbe difficile vivere senza le outline di Repubblica. Già, quelle notiziole che imperversano in prima pagina, contornate di rosso, con la fotogallery aggiunta - "Fermato un eccentrico. Era Bob Dylan" - sanno sempre di "Cinese scomparso, è giallo", sanno di ferragosto in Vespa ascoltando I'm your man di Cohen, in un certo senso sanno di casa. Ieri (era pomeriggio? non so, c'era ancora il sole, ma qua il tramonto scivola sempre più lontano), ieri - dicevo - a un certo punto è apparsa una di quelle linee rosse belle grandi, quelle tutte in maiuscolo che ti mettono l'ansia perché non puoi cliccarci sopra. Diceva che a Valencia c'era stata tipo un'esplosione, un po' di feriti, diceva che gliel'aveva detto El Pais (o El Paìs? il concetto comunque è quello), ma sono andato a guardare e su quel giornale spagnolo dalle accentate ambigue non c'era nulla. Così, una notiziola rossa da dopo corsa e pre cena, tipo un fortune di cronaca nera.

Finisci anche per ammirarli, perché tirano fuori un'enfasi ormai consueta, quando sopra al commovente "Elefantessa torna a camminare con una zampa artificiale" giganteggia un sapido "LE IMMAGINI", tutto maiuscolo, rosso e maiuscolo. È un pullulare di maiuscole, perché su internet tutte le notizie sono condannate a stare in prima pagina e a galleggiare così, invidiandosi a vicenda, aspettando timorose il prossimo reload della pagina. Qualcuno (di quelli che chiamano il background retroterra, gente che andrebbe privata dei diritti civili) invece di reload dice rinfresco, e infatti quei titoletti te li immagini fra un reload e l'altro che ingollano tramezzini con prosciutto cotto e mostarda, di quella mostarda piccante che innervosisce e appunto ti fa vedere poco di buon occhio le altre fellow outlines che giganteggiano sparse per la prima pagina.

Fortunatamente la vita, o il mondo, o comunque la storia, non funzionano a prime pagine. Funzionano (ed ecco qui la morale di questo post ferragostano dove per la prima volta posso associare il ferragosto più a una sensazione di freddo che ad una di afa opprimente), funzionano - dicevo - come il misterioso mondo delle lavatrici. I più attenti avranno difatti notato come le lavatrici constino perlopiù di un cassetto a triplice entrata, di fronte al quale l'uomo comune - per ignoranza o poca praticità o peggio ancora per inferiorità numerica di fronte ad ignobili barriere linguistiche - si trova sperduto e spaesato. Tre simpatici scompartimenti, simpatici come sanno essere solo tre scompartimenti unticci incrostati di quel sapone in polvere che non si è mai capito se ha più senso che sia in polvere o liquido, tre simpatici scompartimenti - dicevo - di cui uno solo è quello giusto, e però il simboletto cuneiforme che li distingue è ignoto e indecifrabile, e quindi l'uomo comune non sa cosa fare.

In casi come questo (e nella vita, e nel mondo, o comunque nella storia), e qui vado a concludere l'insegnamento di questo post soprattutto didascalico, la soluzione più ragionevole è suddividere la razione di detersivo in tre parti eguali, e come tale distribuirla salomonicamente e magnanimamente in ciascuno dei tre scompartimenti. È l'unico modo per avere i panni puliti quantomeno a metà, per sfuggire all'ansiosa e alienante ricerca di un senso in quegli ideogrammi serigrafati nelle plastiche bianche di quella vaschetta tripartita, è l'unica possibilità o almeno illusione di passare indenni il prossimo rinfresco e sopravvivere comunque, un po' meno maiuscoli ma per questo forse un po' più vivi.


lunedì, 1 giugno 2009

martedì, 26 maggio 2009

Esercizio

In Italia, lo 0.24% delle persone ha un qualsiasi tipo di precedente penale.

Di questi, il 32.3% è cittadino extracomunitario.

Sapendo che invece il 99.2% delle persone oneste è cittadino italiano, dire
  1. qual è la probabilità di incontrare, domattina, un cittadino extracomunitario con precedenti penali;
  2. qual è la probabilità di incontrare, domattina, un cittadino italiano con precedenti penali.

martedì, 19 maggio 2009

giovedì, 26 marzo 2009

sei. (nel senso del numero)

0 1 2 3 4 5


- Oh?
- Eh?
- No dico, oh.
- Eh!
- Che ore sono?
- L'ora di ieri...
- ... a quest'ora, sì, vaffanculo. Che ore sono, cazzo!
- Mezzanotte?
- Lo chiedi a me?
- No lo chiedo a mia nonna. Vaffanculo eh.
- E' un'ora che siamo qui.
- Già.
- Cazzo se sei utile. Vedi nessuno?
- No, ho già guardato. E' mezz'ora che guardo.
- Come lo sai?
- Cosa?
- Che è mezz'ora. Non sapevi nemmeno che ore sono.
- Ma se te l'ho detto io?!
- Tu?
- Sì, io, cazzo.
- Ah, è che non ci sono le lettere affianco ai trattini, mi sbaglio sempre. Quindi è un'ora che siamo qua.
- Ti trovo perspicace.
- Già. Tu vedi nessuno?
- No e inizio ad avere sete. C'è niente da bere?
- C'è dell'acqua dietro.
- Dietro dove?
- Bagagliaio.
- Cazzo. Quella è piena?
- No, è del radiatore. O scendi o niente.
- Ma fa freddo.
- Ti trovo un casino perspicace, complimenti.
- Eh ma ho sete.
- Quant'è che non bevi?
- Non so, non ho l'orologio.
- Ce l'ho io, toh.
- Come tu?
- Sì, eccolo.
- Ah, pensavo l'acqua.
- Non porto l'acqua al polso.
- Ancora niente fuori, eh.
- No, di solito passa qua verso le undici e venti, è un po' strano.
- Cosa?
- Che ritardi.
- Che ore sono, scusa.
- Saranno cinquanta minuti.
- Di ritardo.
- Certo.
- ...
- ...
- Chiamo il capo?
- Dici?
- Sì, dài.
- Dài si scrive con l'apostrofo?
- Non saprei.
- Forse l'accento.
- Forse niente.
- Insomma chiamo.
- Chiama
- ...
- ...
- E se mi chiede chi sono?
- Cazzo, ho sete, fai come cazzo ti pare.
- Sì ma resta un problema.
- Lo so, ho sete!
- Intendevo chi sono.
- Non c'è scritto accanto al trattino?
- No.
- L'ho sempre detto io, sono meglio le virgolette.
- Quelle sopra al due o le altre?
- Eh?
- Dico, quelle della tastiera o il simbolo di maggiore?
- La stelletta?
- No cazzo, quello doppio.
- Colonnello?
- Semmai quello sotto.
- Forse è per questo che si usano quelle del due.
- Già.
- Che ore sono?
- Eh non saprei, non so se ho l'orologio.
- Almeno vai a prendere da bere.
- C'è quella distillata, attaccati.
- Ma che schifo.
- Cosa schifo?
- Che schifo, non sono un ferro da stiro.
- Ti trovo perspicace.
- L'hai già detto.
- Chi?
- Tu?
- Io?
- Non so, non credo importi più di tanto.
- C'è poca differenza, dopotutto.
- Giusto qualcosa di intercambiabile.
- Parole, sfumature, fatti.
- Piccole cose.
- Inezie.
- Anche inecugine.
- Eh ma vaffanculo eh.
- Era per sdrammatizzare, so che hai sete.
- Non è che se parlo di sorgenti poi mi passa.
- Di che?
- Di sorgenti, di acqua.
- Ma io parlavo di inezie e inecugine.
- Ancora!
- Su, dai, ho capito, scherzavo.
- ...
- ...
- ...
- Si è mosso qualcosa.
- Là in fondo, sì.
- Dietro all'albero, prima della discesa.
- Si è tipo inchinato, però.
- Dice che lo fa spesso.
- Inchinarsi?
- No, passare di lì. Passa sempre di lì.
- Abitudinario.
- Non lo giudicare.
- Per carità. Cammina veloce, bisognerà fermarlo.
- Lo sa che deve fermarsi.
- Lo sa?
- Si guarda intorno, mica è scemo.
- Fortuna che non ho chiamato il capo.
- Sarebbe stato imbarazzante.
- Anche pericoloso.
- Toccherà presentarsi.
- Toccherà anche prendere l'acqua.
- Non avevi bevuto la distillata?
- E' quasi finita.
- Dice che fa male, dice che ti consuma da dentro.
- Tipo la vita?
- Ti trovo poetico.
- Sarà la sete.
- O il freddo.
- E' vicino, a 'sto punto scendo a prendere l'acqua.
- Se scendi ti tocca dirgli chi sei.
- Bel problema.
- Già.
- Se scendi tu?
- Credo sia interscambiabile.
- Magari lui ci riconosce.
- Ho i miei dubbi. Scendiamo entrambi?
- Non credo si possa, poi ci notano.
- Già, sei perspicace.
- La facciamo prendere a lui?
- L'acqua?
- Sì.
- Ma non sa dov'è!
- Diciamoglielo.
- Eh, ma chi?
- Bel problema.
- La distillata è finita, no?
- Temo di sì. Telefoniamogli.
- All'acqua?
- No, a lui, tanto è qua dietro.
- Va bene.
- D'accordo allora.
- E se trovo occupato?
- Se trovi occupato ce ne andiamo via di corsa e vaffanculo a tutti, okay?
- Ok.
- Ho detto, okay?
- Okay, ok.
- Ci vuole precisione nella vita.
- Già, poi come fa a consumarti da dentro.
- La saggezza, tante volte, eh?
- Eggià. Comunque si scrive a fianco, con lo spazio, non affianco.
- Ssst, squilla.

martedì, 10 febbraio 2009

Individuo o comunità?

Ieri sera, al solito Porta a Porta simpaticamente dedicato alla vicenda di Eluana Englaro (dedicato, nella migliore tradizione giornalistica, più che altro alle opinioni non richieste di chi con la vicenda non ha niente a che fare), c'era Rocco Buttiglione. Rocco Buttiglione che faceva notare come la Costituzione italiana non si basi sull'individuo, ovvero non garantisca all'individuo libertà e diritti che gli sono propri di-per-sé, ma piuttosto ponga dei limiti ai diritti individuali, limiti scaturiti dall'appartenenza a una comunità, le cui regole si impongono sul singolo cittadino.

E' una interessante lettura della Costituzione italiana. Buttiglione, peraltro, faceva notare come all'articolo 32 essa reciti

Articolo 32

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.


e che quindi lo stato può effettivamente imporre sul cittadino dei trattamenti sanitari, per disposizione di legge. Dimenticava saggiamente Buttiglione la frase immediatamente successiva, che impone che questi trattamenti non vìolino un diritto superiore a quello imposto dalla legge, il diritto al rispetto della persona umana.


È proprio il problema del diritto, che in questi giorni (e in genere a proposito di queste tematiche) viene affrontato frettolosamente, in maniera volutamente confusa, e poco chiara. Fino a che punto può spingersi la legge, nel sancire cos'è obbligatorio e cos'è imprescindibile in campo medico? Fino a che punto il diritto all'autodeterminazione della persona, alla scelta (non importa quando espressa) di sottoporsi o meno a un trattamento sanitario, è universale ed intoccabile?

La sedicente "cultura della vita" afferma un confuso principio di "sacralità della vita", cioè impone che il diritto dell'individuo si fermi quando le sue azioni potrebbero portare se stesso od altri a privarlo dell'esistenza. In altri termini, si può disporre del proprio corpo solo se ci si limita al rifiuto di terapie, anche se consapevoli dell'eventuale esito infausto che deriverebbe da quel rifiuto (si pensi a un'amputazione, o a un trattamento chemioterapico invasivo). Ed è qui che sorgono i problemi.

Da cosa deriverebbe questo diritto di imporre il proprio diniego a una terapia? Dal fatto che la terapia è appunto una terapia, cioè in base a qualcosa che risiede nella definizione stessa di terapia? Oppure in base a un più generale diritto di disporre del proprio corpo, diritto che può dunque imporsi ogni volta di fronte a qualsivoglia trattamento sanitario? Dove per "qualsivoglia" si intende un trattamento sanitario non obbligatorio, oppure uno obbligatorio che vada comunque contro il "rispetto alla persona umana" sancito dall'articolo 32 della Costituzione.

Questa domanda non viene posta. La si risolve con una più semplice classificazione del tale trattamento sanitario come terapia, o come altro, dove questa seconda categoria è quella "intoccabile", quella imprescindibile e irrinunciabile neppure in seguito a un'autonoma e cosciente espressione di volontà. Nella fattispecie, in questi giorni in cui si parla di pazienti in stato vegetativo permamente (dunque con coscienza definitivamente compromessa), ad essere classificata come altro è la nutrizione forzata.

Quello che viene da chiedersi è: è corretto determinare l'obbligatorietà di un trattamento sanitario, solo in base al suo essere o meno classificabile come terapia? È questo, che fa percepire nel malato o in chi gli sta vicino un accanimento, una violazione della dignità personale, l'etichetta "terapia" appiccicata alla tale pratica sanitaria?

Evidentemente no. Il problema è più ampio, e ridurlo al "è terapia/non è terapia" fa passare il messaggio che solo le terapie, possono essere oggetto di espressione della libera autodeterminazione della persona. Il problema è appunto tradurre il "sentire comune" (non maggioritario, perché non si tratterebbe di traduzione ma di imposizione) in un linguaggio scientificamente valido.

Traduzione che, per motivi sia tecnici che etici, ancora non è stata completata. In altri termini non c'è un accordo ragionevolmente universale su varie tematiche, tra cui appunto la classificazione della nutrizione forzata come terapia o come "altro", o la classificazione della morte cerebrale come morte effettiva. Punto di partenza dell'eventuale intervento del legislatore, quindi, dovrebbe essere la presa d'atto dell'esistenza di condizioni cliniche (ad esempio lo stato vegetativo persistente) che sono conseguenza dell'evoluzione dei protocolli di rianimazione, e che come tali si sottraggono (nella "percezione comune", con l'accezione di cui più sopra) ad una semplice classificazione "intuitiva" delle condizioni del malato (vivo/morto, ad esempio) e dell'invasività dei trattamenti sanitari. Si ha ad esempio di fronte il problema di un paziente in cui una lesione cerebrale ha compromesso definitivamente la coscienza, risparmiando però alcune funzionalità di base, come il rapporto sonno-veglia, la respirazione, le funzionalità dei vari apparati. Una condizione "innaturale" e "nuova", figlia solo dei progressi della medicina e delle pratiche di rianimazione, che consentono di mantenere in funzione un corpo in cui la coscienza è compromessa, in cui l'attività cerebrale è isolata dal resto dell'organismo.

Sembra irragionevole, la diffusa tendenza di più parti ad imporre il proprio sistema di valori (abilmente classificandoli non come propri, ma universali), ovvero la tendenza ad imporre - anche con provvedimento legislativo - una soluzione, sostituendo dunque al dibattito scientifico e alla coscienza dei singoli una "verità" calata dall'alto. Un intervento legislativo del genere va in direzione opposta alla soluzione più "naturale", che sarebbe quella di lasciare alla decisione del singolo la classificazione di un dato trattamento sanitario come irrinunciabile o meno, e in caso le modalità di espressione di questa rinuncia.

Letta nell'ottica del dualismo individuo-comunità, la soluzione di cui si discute in questi giorni (qui il testo) e l'originario (e ormai abbandonato) disegno di legge proposto da Marino e altri (qui il testo) vanno in direzioni diametralmente opposte. Mentre il disegno di legge di Ignazio Marino ed altri, garantiva all'individuo il diritto al rifiuto di qualsiasi genere di trattamento sanitario, il disegno di legge ora in discussione in Commissione Sanità impone sull'individuo la regola della comunità, relegando la volontà dell'individuo a semplice "indicazione" per il medico curante, e proibendo esplicitamente (conseguenza quasi ovvia del caso mediatico montato intorno alla vicenda Englaro) l'espressione della volontà di rifiuto dell'alimentazione e dell'idratazione:

Alimentazione ed idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze e non possono formare oggetto di Dichiarazione Anticipata di Trattamento.

Di conseguenza, la comunità (sarebbe più corretto dire il legislatore) impone la sua soluzione al problema scientifico, etico e personale dell'invasività della nutrizione forzata, in malati la cui coscienza è definitivamente compromessa, in cui cioè il ripristino di funzioni superiori è impossibile (a meno di probabilità insignificanti, certamente inferiori alle tante "probabilità negative" cui si va incontro nei vari trattamenti sanitari). Ad esser precisi, il legislatore esclude la possibilità di scegliere anticipatamente di rifiutare la nutrizione forzata (mediante la Dichiarazione Anticipata di Trattamento, espressa nei modi previsti dallo stesso disegno di legge). Non si pone esplicitamente un divieto al rifiuto, quando avviene da parte del paziente cosciente eppure non autosufficiente (come invece prevedeva il decreto-legge rifiutato da Napolitano e poi presentato come disegno di legge nella "corsa contro il tempo" finita ieri), anche se tra le righe quest'intenzione sembra comunque esserci.

Il disegno di legge sottrae, quindi, all'arbitrio dell'individuo la possibilità di scegliere anticipatamente del proprio "futuro terapeutico" in caso di perdita di coscienza, più in particolare impedisce il rifiuto preventivo della idratazione e della nutrizione artificiali. Perché, viene da chiedersi, non si lascia all'individuo la possibilità di decidere anticipatamente, assumendosi le ovvie responsabilità che una scelta anticipata comporta (come il fatto che si potrebbe cambiare idea, ad esempio)?

Si maschera da tutela di un sedicente "diritto alla vita" dell'individuo, la riduzione del suo diritto all'autodeterminazione, della sua possibilità di scegliere come e fino a che punto far disporre del proprio corpo. Si trova una soluzione legislativa a un problema che legislativo non è, intervenendo nel dibattito scientifico-etico con l'imposizione della risposta esatta, con l'introduzione di un sedicente "punto fermo" che starebbe, almeno a sentire le parole dei propugnatori di questo provvedimento, alla base dell'umanità nel senso più ampio del termine.

Contrapporre poi la "cultura della vita" alla "cultura della morte", propagandando come "lotta di libertà" quella che nei fatti è una riduzione della libertà dell'individuo, è un atteggiamento di sterile prepotenza di un sistema di valori (e verrebbe da pensare che sia proprio quello cattolico, esaminando chi e come è intervenuto nel dibattito sul "caso" Englaro) nei confronti della molteplicità di posizioni che si hanno, com'è naturale, nei singoli individui. Prepotenza sterile, perché non porta a nient'altro che un'imposizione legislativa, inevitabilmente percepita come ingiusta da chi in quel sistema di valori non si riconosce, che non va a risolvere un problema peraltro ancora irrisolto, ma pone solo un paletto forzato e per questo "artificiale" all'autodeterminazione dell'individuo.

Riletto nell'ottica suggerita dalle parole di Buttiglione, l'intervento legislativo va a sottolineare che sono le regole della comunità, quelle che prima di tutte le altre l'individuo deve seguire. Che la sfera delle libertà personali è limitata intimamente dall'esistenza di un sistema di valori "ufficiale", propagandato come "cultura della vita" ma riconducibile piuttosto a una delle tante posizioni della dottrina cattolica (dottrina che con la "cultura della vita", nel senso letterale del termine, ad un esame più attento ha poco a che fare, se ci si svincola dalla propaganda e si vanno ad esaminare le varie posizioni al di là di quelle "di facciata" contro l'aborto e l'"eutanasia"). Si sottolinea, quindi, una supremazia dello stato che verrebbe da definire illiberale, nella misura in cui va ad imporsi sul cittadino mediante un trattamento sanitario obbligatorio: e il punto è che quest'obbligatorietà non è la stessa che magari avrebbe una profilassi d'urgenza contro un'epidemia imminente, perché quest'ultima interesserebbe la comunità, mentre la nutrizione forzata e le altre pratiche mediche di "mantenimento in vita" di pazienti in stato vegetativo interessano l'individuo e lui solo.

Che c'è di male, viene dunque da chiedersi, nel pensare che sia normale poter imporre, anticipatamente o al momento, il proprio rifiuto ad un mantenimento in vita forzato ed invasivo, quando la prognosi è di non reversibilità della perdita di coscienza? Affermare il contrario, oltre che a sottoporre il malato ad una "ingiustizia" (perlomeno percepita, in un campo dove "giusto" e "sbagliato" non possono avere una definizione solo legislativa), crea un pericoloso precedente nel rapporto comunità-individuo, in particolare nel rapporto tra lo stato e la vita del cittadino. Precedente che sarebbe facilmente estendibile ad altre tematiche, come ad esempio quella dell'aborto, perché va nella stessa direzione di quella che la chiesa cattolica propaganda come "sacralità della vita", ma che altro non è che l'imposizione di un sistema di valori non universali che vanno a definire cos'è la vita, come e fino a che punto se ne può disporre, sottraendo al dibattito scientifico e all'autodeterminazione del singolo una tematica di rilevanza fondamentale.